Estratto dal libro “Thesaurus giuridico e dialettico”

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  1. AB ABUSU AD USUM NON VALET CONSEQUENTIA – Dall’abuso nell’uso non scaturisce alcunché. Formula giuridica per indicare che l’abuso di una cosa non è argomento utile contro l’uso della medesima. Un conto è l’uso legittimo di un diritto o di un bene ed un altro è l’abuso, che non è l’uso (normale) ma la sua degenerazione e quindi rappresenta una distorta interpretazione del diritto stesso: abusus non est usus sed corruptela – l’abuso non è uso ma corruttela.

 In linea generale, l’abuso si concreta allorquando un diritto soggettivo venga esercitato oltre i limiti stabiliti dalla legge. Si suole definire come abuso anche la prevaricazione nell’uso di una propria attività o di una propria funzione, in modo tale da arrecare danno agli altri.

In breve, dal cattivo uso di una cosa o dal cattivo uso di un proprio diritto non può farsi derivare una qualche conseguenza. Il cattivo uso di una cosa non è di per sé idoneo ad instaurare diritti, legittimarne l’esercizio o pretese di sorta (cfr. la voce sub n. 47). Ed altresì, l’uso in modo illecito di una cosa non ci autorizza ad affermare che l’uso regolare della stessa sia da vietare in assoluto. Di ben altro significato è invece la formula: abusus non tollit usum – l’abuso non toglie l’uso (cfr. la voce sub n. 48).

  1. AB ABSURDO – Dall’assurdo, per assurdo. Forma della filosofia e della retorica medievale, ispirata ad un importante principio della logica aristotelica, quello del c. d. terzo escluso, secondo cui un’affermazione non può che essere vera o falsa senza altre possibilità intermedie. Nelle dimostrazioni ab absurdo, secondo la concezione aristotelica, a fronte di due affermazioni contrarie, dimostrarne falsa una equivale a dimostrare vera l’altra, senza possibilità intermedie.

Il ragionamento ab absurdo, secondo gli insegnamenti della filosofia scolastica, porta a dimostrare la validità di una tesi attraverso la negazione del suo contrario o provando l’assurdo che deriverebbe ammettendo il suo contrario. Del pari, porta a definire come dimostrazione ab absurdo quella che, partendo da una premessa o da una ipotesi assurda, non si può che pervenire ad una conclusione sbagliata o non vera. Ciò posto, per l’aristotelico principio del tertium non datur, è da ritenersi dimostrata ab absurdo come vera l’affermazione contraria. Si dice quindi di una argomentazione filosofica volta a dimostrare la verità di una proposizione, attraverso gli assurdi che deriverebbero ammettendo la contraria.

In matematica, si dice della dimostrazione per assurdo, che si consegue provando le conseguenze false che derivano da ipotesi o premesse erronee.

In ambiti giuridici, si fa un uso specifico in sede di interpretazione della norma giuridica, ex art. 12 preleggi, propriamente nell’esame del c. d. argomento ab absurdo, che consiste nel dimostrare le conseguenze assurde o insensate che deriverebbero da una diversa interpretazione. Deve però trattarsi di una assurdità giuridica e non di una difficoltà di applicazione della norma (cfr. la voce sub n. 2519).

Nel linguaggio comune, si dice di un ragionamento, dimostrazione, argomentazione, che discende da una premessa assurda.

  1. AB AETERNO – Dall’eternità (dei tempi), fin dall’eternità (dei tempi). Locuzione del latino biblico e teologico per indicare ciò che non ha alcun inizio: Dio esiste ab aeterno. Era molto ricorrente nella filosofia scolastica per indicare: ciò che non ha alcun inizio, principio, cominciamento.

Nell’uso teologico, si dice di eventi che sono stati predeterminati da Dio prima dell’inizio del tempo e che si sono poi adempiuti. Nell’uso letterario moderno, esprime qualità e condizione di ciò che è eterno e quindi indica: da un tempo indefinito, da sempre, da tempi lontanissimi, da tempo immemorabile.

  1. AB ANTIQUO – Sin dal tempo antico, da tempi antichi, fin dall’antichità. Locuzione della classicità latina (in it. è loc. avv.), usata anche nella forma ab antico, per indicare norme, usanze, consuetudini, tradizioni, situazioni o avvenimenti la cui origine risale a tempi molto lontani e non ha quindi una datazione precisa. Il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) esprime il concetto di antica usanza, usando un’espressione di particolare effetto: perché si ha cura fino ab antico di chiuder gli occhi ai morti (Leopardi). Nell’uso comune, si dice di fatti o cose risalenti a tempi passati, molto lontane nel tempo, la cui origine si perde nella notte dei tempi e non ha una datazione storica precisa. Si può usare quindi come equivalente di: da tempo antico, dai tempi antichi, da gran tempo, da tempo immemorabile.
  1. AB ASSUETIS NON FIT INIURIA – Dalle cose consuete non nasce violazione di diritti. Importante regola del diritto consuetudinario arcaico secondo cui a seguir gli usi comuni non si sbaglia. Nel diritto romano di tutti i tempi (dall’epoca arcaica, a quella della repubblica, a quella del principato ed infine a quella giustinianea) si è sempre ritenuto che il comportamento uniforme e costante tenuto dai cittadini, nella convinzione della sua doverosità, dia origine ad una norma consuetudinaria vincolante per tutti i consociati ed altresì sia tale da escludere nocumento a chicchessia.

Detto principio consuetudinario del diritto romano, pur rivestendo un qualche pregio giuridico, non può ovviamente trovare applicazione sic et simpliciter nell’attuale sistema, se non nei limiti che il vigente ius positum riconosce all’istituto della consuetudine nell’ambito della teoria delle fonti.

Pur in tale limitato contesto, la consuetudine occupa un posto a sé, costituendo una tipica fonte del diritto non scritto: consuetudinis ususque longaevi non vilis auctoritas est – la consuetudine e l’uso inveterati non sono di poca autorità. In dottrina, si dà la definizione di comportamento costante e uniforme da parte della generalità dei consociati, tenuto nella convinzione della sua rispondenza alla legge.

Il diritto privato, entro determinati limiti, riconosce alla consuetudine, laddove ne ricorrano tutti i presupposti, il rango di fonte del diritto (artt. 1, 8 disp. prel. c.c.). Perché si possa parlare di consuetudine occorre però accertare la concomitante presenza di due elementi: elemento oggettivo, c. d. diuturnitas, costituito dal comportamento costante ed uniforme; elemento psicologico, c. d. opinio iuris ac necessitatis, costituito dalla convinzione che trattasi di comportamento giuridicamente doveroso.

Si distingue tra: consuetudo secundum legem, quando l’uso è richiamato direttamente dalla legge e per i soli casi o materie non regolate dalla legge; consuetudo praeter legem, quando l’uso opera al di là della sfera d’azione delle norme scritte e sia volto a disciplinare materie non regolate espressamente da fonti scritte; consuetudo contra legem, quando l’uso si pone in contrasto con il dettato della legge; tale genere di consuetudine non è ammissibile in quanto contraria all’art. 8 disp. prel. c.c e quindi non opera.

  1. AB ASSUETIS NON FIT PASSIO – Dalle cose assuefatte non si crea la passione. Detto derivante dalla letteratura latina che, nella libera traduzione moderna, indica: non si prende gusto alle cose di tutti i giorni, le cose comuni non destano emozioni (sottintendendo, manca il gusto del proibito). Il concetto trae origine dall’aforisma aristotelico: quod consuetum est, velut innatum est – ciò che è consueto è come istintivo.

Da tale detto latino (correlato al precedente sub n. 5) deriva poi l’idea che da tutto ciò che ci è familiare o da persone conosciute, generalmente, non ci può essere procurata alcuna emozione o turbamento.

 Il concetto è d’uso comune anche nel linguaggio giuridico per indicare che dalle cose consuete non nasce turbazione e, più precisamente, indica che un’antica prassi consuetudinaria non riserva sorprese di sorta.

  1. ABDICATIO – Abdicazione. Nella tradizione romanistica, il termine ab origine indicava la rinunzia volontaria all’esercizio di un potere sovrano. I primi casi di abdicazione si ebbero da parte dei re (che diversamente rimanevano in carica fino alla morte) e successivamente da parte dei magistrati. In età imperiale, unico esempio di abdicatio è quello di Diocleziano (243-313), che la impose anche al collega Massimiano (240-310).

In età classica si conobbe una particolare figura di abdicazione, quella dell’abdicatio tutelae, che consisteva in una solenne dichiarazione di rinuncia all’incarico tutelare fatta da parte del tutor testamentarius – tutore testamentario in presenza di un numero variabile di testimoni (cfr. la voce sub n. 1636).

In diritto pubblico moderno, l’abdicatio è la volontaria rinuncia di un monarca al trono. Per la sua validità, occorre che sia disposta per libera scelta ed inoltre occorre che sia assoluta, cioè non revocabile né temporanea, ed infine che risulti da un atto formale. Da notare poi che non può essere disposta a favore di chi non sia legittimo successore alla corona. In sostanza l’abdicazione produce gli stessi effetti giuridici della morte del re.

In diritto canonico, è pacificamente ammessa l’abdicatio del pontefice purché risulti da un atto formale, per la cui validità non è necessaria l’accettazione da parte dei cardinali né di altri organi.

In via generale, il termine abdicatio assume ancora oggi il significato di rinuncia all’esercizio di un potere, di una carica, di una funzione pubblica rivestita. Più genericamente, si dice della rinuncia di un diritto disponibile, di una prerogativa, di un privilegio, et sim.

In diritto privato, si dice dell’atto unilaterale con cui un soggetto abdica all’esercizio di un proprio diritto, che di conseguenza si estingue. In taluni casi, la rinuncia può risultare da un fatto che sia incompatibile con la volontà di valersi del diritto.

In diritto processuale civile, si dice della rinunzia agli atti processuali, ossia della dichiarazione dell’attore di non voler proseguire nel procedimento.

In diritto penale, si dice della rinunzia alla querela, fatta davanti ad un ufficiale di polizia o ad un notaio.

In diritto processuale penale, si dice della rinunzia all’impugnazione ad opera del P.M. o delle parti private che avrebbero diritto all’impugnazione.

In diritto amministrativo, la rinunzia è una dichiarazione unilaterale di non voler avvalersi o non voler esercitare un diritto.

  1. ABERRATIO – Aberrazione. Termine proprio della tradizione giuridica per indicare la deviazione da una norma, da un principio o da un comportamento che si considera normale.

 In chiave moderna, il termine aberratio trova varie occasioni di impiego, specie in diritto penale e in diritto amministrativo.

In diritto penale, l’aberratio è la divergenza tra il fatto voluto dall’agente e quello effettivamente realizzato. Il reato aberrante, dovuto ad errore o ad altre cause, può riguardare tanto il processo causale, che la persona offesa, che l’evento. Si distinguono quindi tre ipotesi in cui l’esecuzione del reato, nella realtà, può aver avuto uno sviluppo o uno svolgimento diverso da quello previsto dall’agente:

 – aberratio causae – aberrazione (deviazione) della causa, quando l’agente ha realizzato il reato voluto ma il processo causale si è svolto in modo diverso da quello voluto (la deviazione del rapporto causale non esclude, ex art. 43 c.p., che il fatto venga imputato al suo autore a titolo di dolo);

 – aberratio ictus – aberrazione (deviazione) del colpo (o della persona), deviazione del colpo (dall’obiettivo), quando, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un’altra causa, è cagionata offesa (si è colpito un bersaglio diverso da quello che si intendeva colpire) a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta (art. 82 c.p.);

 – aberratio delicti – aberrazione (deviazione) del delitto, deviazione dell’evento dannoso, quando, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, commettendo così nella realtà un delitto diverso da quello che si intendeva commettere (art. 83 c.p.).

In diritto amministrativo, la forma latina aberratio indica un vizio di legittimità per eccesso di potere, nella sintomatica figura dello sviamento, laddove si configuri un’aberrazione dello scopo generico e specifico assegnato all’atto dalla legge, con alterazione dell’indole normale.

 Nel linguaggio comune, si dice di una deviazione in senso fisico o morale e, per estensione, si dice di un traviamento, di eccentricità, stravaganza; ad es., si parla di aberrazione dei costumi.

  1. ABDITUS – Nascosto, invisibile, segreto. Termine della classicità latina (part. di abdo) per indicare ciò che non appare alla vista, ciò che è celato, occulto. È usato anche come primo elemento di parole composte e, come tale, destinato ad assumere molteplici accezioni e significazioni, dipendenti dal contesto di riferimento e dagli svariati aspetti lessicali, es.: ex abditus – di provenienza segreta (Cicerone); sentenziae abditae – concetti astrusi (Cicerone); abdita rerum – concetti nuovi, sconosciuti (Orazio).

Correlato al tema dell’impercettibile in contrapposizione al tangibile, sembra l’aforisma del poeta e saggista veronese Tiziano Meneghello (1955): «l’invisibile lo percepiamo, l’inesistente lo immaginiamo, ciò che abbiamo lo dimentichiamo».

  1. AB EXPERTO – Da esperto. Locuzione latina che la tradizione fa derivare dal detto popolare: quam subito, quam certo, experto crede Ruperto – nel modo più veloce e nel più certo fidati dell’esperienza di Ruperto. La scelta del nome Ruperto (Roberto) è dovuta verosimilmente a mere esigenze di rima, per cui ab experto sottintende: dai retta a me, al vecchio Roberto, ricco di anni e di esperienza.

 Il medesimo concetto è efficacemente espresso da alcuni detti medievali: credat expertis quod experiri periculose desiderat – chi vuole sperimentare un pericolo creda a chi ne ha esperienza, che invita a fidarsi di chi ha già sperimentato una cosa; ex insipientibus sapiens – sapiente tra ignoranti, che indica propriamente chi è esperto in uno specifico settore; purus putus – puro tale e quale, che, alludendo all’esperto di uno specifico settore, indica che non capisce nulla di altre cose.

Nella sua comune accezione, ab experto indica: da parte di chi ne ha fatto esperienza. Più genericamente, si dice di chi agisce con competenza e bravura, di chi compie o tratta una cosa con competenza e bravura di esperto, di chi parla di argomenti dei quali ha una diretta esperienza.

 In genere, si suole definire expertus chi ha acquisito molta esperienza in uno specifico settore, chi ha lunga pratica e abilità nella propria arte, chi ha maturato una sicura conoscenza di qualche cosa.

  1. AB EXTRA – Dall’esterno. Locuzione latina (in it. è loc. avv.) di largo impiego sia nel linguaggio comune sia in quello giuridico che si usa nel significato generico di: dal di fuori.

Si dice di un atto, fatto, azione, negozio, fenomeno, operazione, attività o manifestazione che resta al di fuori o si colloca al di fuori rispetto all’oggetto considerato. Si parla, ad es., di finanziamento ab extra, per indicare che proviene da una terza parte. È il contrario di: ab intra – dal di dentro.

In campo artistico, si parla di un processo creativo che si sviluppa ab intra ad extra – dall’interno all’esterno, da dentro di noi all’esterno, cioè con l’attualizzazione dell’idea in cosa concreta.

  1. AB HEREDE OBLIGATIO INCIPERE NON POTEST – Un’obbligazione non può iniziare dall’erede, per l’erede non può incominciare obbligazione. Dalle istituzioni gaiane si evince che il diritto postclassico accoglieva il fondamentale principio, già di età classica, secondo cui nessuna obbligazione si considera a carico del successore prima dell’accettazione dell’eredità.

Nel quadro attuale, l’art. 459 del c.c. stabilisce che l’eredità si acquista con l’accettazione e pertanto prima dell’atto di accettazione espressa o tacita per l’erede non può nascere obbligazione.

  1. AB HOC ET AB HAC – Da questo e da questa. Detto medievale per indicare cose riportate senza ordine nel corso di una conversazione ma anche per indicare un ragionamento o un’espressione senza senso. La fonte e/o l’origine potrebbe essere il detto: quando conveniunt Domitilla, Sibylla, Drusilla sermones faciunt et ab hic et ab hoc et ab illa – quando si trovano insieme Domitilla, Sibilla e Drusilla, fanno discorsi partendo da questo, da quello e da quella, che ironizza sui discorsi delle donne. Analogo concetto è espresso anche nella forma: et ab hic et ab hoc – e da qui e da questo, che indica propriamente il confuso inserimento di vari argomenti e pettegolezzi in una conversazione.

In genere, con il detto ab hoc et ab hac (in it. è loc. avv.) si allude ad un discorso o ad un ragionamento espresso con scarsa proprietà di linguaggio. Più genericamente, si dice di cose riferite confusamente, di cose esposte senza organicità, così come vengono, del parlare a vanvera, a ruota libera.

  1. ABIGEATUS – Abigeato. Nella tradizione romanistica il termine indicava il furto di bestiame, quale figura di delitto privato, perseguibile unicamente dal derubato. In tarda età imperiale, venne sanzionato come delitto pubblico e perseguito extra ordinem con severe pene corporali di vario ordine, dalla relegatio alla morte, a seconda dell’entità del furto.

 Nel nostro contesto, propriamente in diritto penale, fino al 1999 l’abigeato costituiva un’ipotesi di furto aggravato, contemplata dall’art. 625, punto 8, c.p., fattispecie poi depenalizzata dalla Legge 25 giugno 1999 n. 205 e dal D. L. 30 dicembre 1999 n. 507, in considerazione della scarsa rilevanza sociale, e punita con sanzione amministrativa pecuniaria.

  1. ABIIT AD PLURES – Si è unito ai più, se n’è andato a raggiungere i più. L’eufemismo della letteratura greco-latina significa il regno dei defunti (molto più numerosi dei vivi). In un passo del Satyricon di Petronio Arbitro si narra della morte di un certo Chrysanthus: animam ebulliit – un anima bella, ha finito di tirare il fiato anche lui (Petronio, Satyricon, 42, 12). In tema, è anche il parallelo eufemismo plautino: abierunt hinc in communem locum – se ne andarono da qui verso un luogo comune (Plauto, Casina, 18), riferito ai defunti.

Nelle allusioni del linguaggio comune, si dice di una persona deceduta (cfr. anche la voce sub n. 245).

  1. AB ILLO TEMPORE – Da quel tempo, da molto tempo fa. Formula medievale, in uso anche nel linguaggio curiale medievale per indicare che dopo un determinato fatto storico, da quel tempo, si è sempre seguita la medesima prassi, oppure per dire che da quell’avvenimento, si è sempre operato in quel determinato modo.

Nell’uso comune, è un modo ironico o scherzoso per indicare che una certa cosa risale a molto tempo fa, che un certo modo di operare è in atto da data immemorabile.

  1. AB IMIS FUNDAMENTIS – Dalle più basse fondamenta. Detto riconducibile alla classicità latina ma i critici letterari ritengono che la sua fortuna sia probabilmente legata ad una celebre frase di Francis Bacon (filosofo e scienziato inglese, 1561 – 1626), usata nella sua opera Instauratio magna, che recita testualmente: instauratio facienda ab imis fundamentis – il rinnovamento va fatto dalle fondamenta più profonde. Con detta opera l’autore si proponeva di ricostruire lo scibile umano, demolendo i pregiudizi scolastici e aristotelici.

L’ellissi ab imis (in it. è loc. avv. attr.) è divenuta d’uso comune nel significato sinonimico di: dalle più profonde origini, dalle radici più profonde.

In chiave giuridica, rinnovare ab imis significa riformare radicalmente un istituto giuridico, una prassi giuridica o burocratica, una determinata realtà giuridica. Nello stesso significato si usa anche funditus – dalle fondamenta, dalle radici.

 In chiave politica, rinnovare ab imis esprime l’idea implicita od esplicita di una totale innovazione di qualcosa, di un sostanziale miglioramento, di una sostanziale trasformazione, di un rinnovamento radicale, fin dalle più remote origini, dalle radici, dal principio, dalle basi.

 In genere, rinnovare ab imis significa trasformare radicalmente qualcosa, rinnovare profondamente un modo di vita o un tenore di vita, riformare una data situazione.

 Nel linguaggio dei restauratori, riferendosi ad opere di restauro ed a rifacimenti in genere, ab imis fundamentis indica un radicale rinnovamento, a partire dai punti più bassi.

  1. AB IMMEMORABILI (tempore) – Da tempo immemorabile, da tempo remotissimo. Espressione della tradizione giuridica, derivante da un singolare istituto del diritto arcaico romano, secondo cui una determinata situazione di fatto si considerava conforme al diritto laddove l’esistenza della stessa fosse attestata da testimoni ultracinquantenni, i quali dichiarassero di averne sempre avuto conoscenza, unitamente ai loro avi.

 Nell’uso comune, si dice che una determinata situazione di fatto, uno stato di cose o un determinato modo di essere risulta a memoria d’uomo o sfugge alla memoria dell’uomo, avendo origini così antiche che si perdono nel tempo. Più genericamente, esprime il concetto che una determinata cosa risale a tempi lontanissimi, di cui se n’è perduta la memoria, ed è sempre stata tale.

  1. AB IMO PECTORE – Dal profondo (del petto) del cuore (Lucrezio, De rerum naturae, 3, 57). Espressione propria della letteratura latina (si hanno attestazioni in Virgilio, Catullo, Ovidio, etc.) per indicare che si parla con assoluta sincerità d’animo, che si esprime ciò che si pensa con animo sincero.

 In senso letterale, l’espressione ab imo pectore (in it. è loc. avv.), così come aperto pectore – con cuore aperto (Plinio, Epistulae, 6, 12; Cicerone, De amicitia, 26), indica la spontaneità e genuinità di sentimenti nell’esprimere le proprie emozioni o le proprie idee, talché quanto si sta dicendo non può che venire dal profondo del cuore e corrispondere a verità. Si dice quindi di cosa sentita che erompe dal più intimo di ciascuno, dell’erompere improvviso e incontenibile di espressioni di sdegno e di ira oppure dí amore e di passione.

Nella letteratura anglosassone è attestata la hormic theory – teoria ormica, secondo la quale le emozioni e le proprie idee dipendono da certi istinti fondamentali, che sarebbero alla base di tutta l’attività psichica.

L’importanza dei sentimenti umani è efficacemente compendiata nell’espressione petroniana: corcillum est quod homines facit – è il cuore che fa l’uomo (Petronio, Satyricon, 75, 8), tesa a stigmatizzare la vera caratteristica che contraddistingue l’essere umano. La parallela espressione oraziana ab imo ad summum – dalla parte più bassa a quella più alta allude invece alla totalità del corpo umano e, più in generale, al concetto di interezza e integrità. A riguardo poi delle insondabili profondità dell’animo umano, piace citare la frase di Sant’Agostino, tratta dal famoso passo sull’interiorità della verità: in interiore homine habitat veritas – nelle profondità dell’uomo abita la verità (Sant’Agostino, La vera religione, 72).

  1. AB INCUNABULIS – Fin dalle fasce (fin dalla culla, fin dalla prima infanzia). Forma espressiva usata in particolare da Livio (Storia Romana, IV, 36, 5) ma anche da altri scrittori delle varie epoche, sia con valore generico per indicare qualcosa di molto radicato, tanto da sembrare addirittura innato (fenomeno innato), sia in senso propriamente metaforico per indicare «fin dalle origini».

Nelle allusioni del linguaggio comune, si usa nel significato di: fin dalle primordi, fin dagli inizi, fin dagli albori, fin dagli inizi, et sim.

  1. AB INITIO – Da principio. Locuzione propria della classicità (in it. è loc. avv.), ampiamente usata dagli scrittori latini ma anche dai giuristi e dagli storici latini per significare: fin dall’inizio, fin dal principio.

In genere, si dice che un dato modo di procedere o una determinata prassi ha origini antichissime ed è sempre stata pacificamente seguita.

 In chimica teorica, si dice che i calcoli ab initio sono calcoli teorici puri, condotti senza sfruttare dati ottenuti sperimentalmente. In diritto ereditario si dice, ad es., che l’erede subentra ab initio in ogni rapporto attivo e passivo e financo in quelli in via di formazione alla morte del de cuius.

 La forma latina ab initio costituisce, a sua volta, un elemento qualificativo di importanti espressioni giuridiche, quali ad es.: omnis ratihabitio prorsus retrotrahitur et confirmat ea, quae ab initio subsecuta sunt – ogni ratifica retroagisce del tutto e conferma gli atti che si siano susseguiti fin dall’inizio; ciò che all’inizio era beneficio, con l’abitudine ed il tempo diventa un debito; clausula quae abrogationem excludit, ab initio non valet – una clausola che esclude la sua abrogazione non è valida fin dall’inizio; quod ab initio erat voluntatis, postea fit necessitatis – ciò che prima (della stipulazione del contratto) era nella volontà delle parti, dopo diventa un obbligo; quod ab initio non valet, tractu temporis convalescere – ciò che all’inizio non è valido non si sana col decorso del tempo; quod ab initio vitiosum est, non potest tractu temporis convalescere – ciò che è viziato all’inizio non può essere sanato con il decorso del tempo (non può riprendere vigore col decorso del tempo); quod nullum ab initio, nullum producit effectum – ciò che (per se stesso) è nullo dall’origine non produce effetto alcuno.

Nell’uso comune, ab initio surroga espressioni del tipo: fin dalle origini, originariamente, fin da principio, dal primo principio, fin dalle origini, fin da quando ha avuto inizio, et sim.

  1. AB INITIO NULLUM, SEMPER NULLUM – Nullo all’inizio, nullo per sempre. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica e alla compilazione giustinianea, per indicare: se un atto o un negozio giuridico è nullo fin dall’origine, gli atti ad esso conseguenti non potranno che essere nulli a loro volta. Nel quadro attuale, il negozio giuridico è considerato giuridicamente nullo quando manca di un elemento essenziale (cfr. la voce sub n. 1543). Se l’anomalia è limitata solo ad una o più clausole del negozio giuridico, aventi carattere accessorio, trova applicazione il principio utile per inutile non vitiatur. Se però l’anomalia è tale da comportare la nullità assoluta del negozio giuridico, vitiatur et vitiat, il medesimo non produrrà effetto alcuno, per cui vale la regola ab initio nullum semper nullum (art. 1419 c.c.).
  1. AB INTERLOCUTORIO DISCEDERE IUDICI LICET – Il giudice può andar di diverso avviso rispetto alle decisioni interlocutorie. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica e alla compilazione giustinianea, per indicare che le sentenze possono essere anche parziali.

La concezione giuridica moderna designa come sentenza parziale o sentenza non definitiva quella che definisce solo una parte delle questioni controverse. Ad es., si ha una sentenza parziale quando il giudice si limita a pronunciarsi solo su una questione preliminare, disponendo la continuazione dell’istruttoria, riservandosi di decidere successivamente la questione di merito. L’appello e il ricorso per cassazione, relativamente ad una sentenza che decide solo in parte il giudizio, a norma degli artt. 340 e 361 c.p.c., possono essere deferiti sino al momento della sentenza definitiva. Nella pratica, ciò comporta la possibilità che il giudice emetta una decisione definitiva che si scosta da quella incidentale, interlocutoria, provvisoria, et sim.

  1. AB INTESTATO (SUCCESSIO) – Da chi non ha fatto testamento, da chi è deceduto senza aver fatto testamento. Formula della tradizione romanistica, di età classica e postclassica (Paolo), evinta dalla massima: legitima hereditas est, quae ab intestato defertur – chiamasi eredità legittima quella che viene conferita senza testamento. La successione ab intestato è la situazione derivante da chi non ha fatto testamento o da chi l’ha fatto ma la cui eredità non è stata adita, perché l’erede non è entrato in possesso o per rinuncia o per impedimenti, quali la morte (Digesto giustinianeo, 50, 16, 54). In caso di successione ab intestato, cioè senza testamento, l’eredità deve essere prioritariamente devoluta agli eredi propri, ossia ai discendenti, qui in potestate fuerunt – che furono in potestà, in assenza dei quali sono ammessi i parenti consanguinei, quindi i parenti per legge (agnati) e via via tutti gli altri, secondo un preciso e rigoroso ordine previsto dal ius civile. Se taluno tra più delati ab intestato di uguale grado non acquisti la propria quota, questa va ad accrescere in parti uguali le quote degli altri (Ulpiano, 26, 5).

In continuità con la tradizione giuridica, è ancora oggi definita ab intestato la successione ereditaria legittima o intestata, cioè quella che proviene da parte di chi è morto senza aver fatto testamento. In pratica, si suole indicare la situazione che si verifica quando il de cuius non abbia disposto dei suoi beni con atto testamentario, ovvero non abbia lasciato nessuna disposizione testamentaria o lo abbia fatto solo parzialmente.

Nel quadro attuale, la materia è regolata dagli artt. 565 e segg. c.c., le cui norme individuano le categorie di successibili in base al rapporto di parentela o di coniugio. In tal caso l’eredità, limitatamente ai beni per i quali il testatore non ha disposto, si devolve per successione legittima secondo legge (art. 457 c.c.).

  1. AB INTUS – Dal di dentro (Persio, Satire, III, 30). Locuzione della letteratura latina (in it. è loc. avv.), ascritta in particolare a Persio ma ampiamente usata anche da altri classici latini, per indicare ciò che proviene da dentro, dall’interno. È il contrario di ab extra – dal di dentro.

In genere, si dice di un atto, fatto, azione, negozio, fenomeno, operazione, attività o manifestazione che proviene dall’interno o che si colloca all’interno rispetto all’oggetto considerato.

  1. AB IOVE PRINCIPIUM – Da Giove il principio. Celebre espressione virgiliana il cui verso recita testualmente: ab Iove principium, Musae: Iovis omnia plena; ille colit terras, illi mea carmina curae – o Muse, l’inizio viene da Giove, tutto è pervaso da Giove, egli provvede al mondo ed ha cura delle mie canzoni (Virgilio, Bucoliche, III, 60, 61).

Dall’intero contesto si desume che il principio di tutte le cose è Giove, dato che ogni azione umana, nel pensiero virgiliano, non può che prendere le mosse dalla divinità. Invero, nei proemi delle opere poetiche latine, si fa spesso riferimento a Giove (unitamente ad Apollo, divinità ispiratrice della poesia), che, essendo padre e capo delle altre divinità, poteva essere considerato dai poeti anche la prima fonte di ogni ispirazione.

L’idea è stata poi reinterpretata nel pensiero cristiano, finendo per significare che in ogni azione od impresa umana occorre prendere ispirazione da Dio e rispettarne la volontà. Il concetto è riportato da Giusti (Proverbi toscani, 273): «non si comincia bene se non dal cielo».

In chiave moderna, in una sorta di slittamento di significato, l’espressione virgiliana ab iove principium (in it. è loc. avv.) si cita per indicare una cosa o una narrazione che ha inizio dal fatto o dalla cosa principale, ovvero dal personaggio più importante.

  1. AB IRATO – Da chi è adirato, da uno in preda all’ira, in stato d’ira. Forma espressiva della classicità latina per esprimere lo stato d’animo di chi è dominato dall’ira, di chi è mosso dall’ira, di chi è in preda all’ira, di chi è sotto l’impeto dell’ira. In tema, l’insegnamento publiliano: eripere telum non dare irato decet – a una persona irata bisogna togliere il dardo, non darlo (Publilio Syro, E, 11) rimarca l’incoscienza di dare un’arma a chi è sotto l’impeto dell’ira, mentre il senecano: maximum remedium irae mora est – il miglior rimedio all’ira è l’indugio (Seneca, De ira, 3, 39) indica che occorre temporeggiare perché così l’ira nel frattempo sbollisce e lascia nuovamente spazio alla ragione.

Con riferimento a chi sia preda dell’ira, sembrano significative le massime: scelera non habere consilium – i delitti non hanno cervello (Quintiliano, 7, 2, 44); Diis proximus ille, quem ratio non ira movet – è prossimo agli dei colui che è sempre spinto dalla ragione e mai dall’ira; clausae sunt aures, obstrepente ira – sono chiuse le orecchie quando ruggisce l’ira (Curzio Rufo, Illistoriarum Alexandri Magni, X, 8, 1, 5); professio a matre irata facta non facit fidem – la dichiarazione di una madre adirata non fa fede.

Per adombrare la circostanza attenuante comune (art. 62 c.p.), sembra di particolare interesse la massima: lex videt iratum; iratus legem non videt – la legge considera chi sia preda dell’ira; chi è adirato, invece, non vede alcuna legge che compendia il principio di diritto penale secondo cui la legge considera lo stato d’ira come attenuante o come causa di esclusione della punibilità (art. 599 c.p.), purché causato da un fatto ingiusto altrui. Chi è in preda dell’ira non considera, mentre compie il gesto criminoso, le conseguenze ipotizzate dalla legge. Altre attenuanti generiche sono: aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale; aver compiuto il fatto per suggestione di una folla in tumulto; aver cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale molto tenue; aver compiuto il fatto col concorso colpevole o doloso della persona offesa; avere prima del giudizio riparato interamente il danno.

Nell’uso comune, ab irato si dice di chi ha agito sotto l’impulso della collera, riferendosi a qualcosa che è stato fatto o detto in stato di collera, a decisione presa sotto l’impulso dell’ira, et sim. Un atto compiuto in un momento d’ira o una frase pronunciata in stato di collera va considerata con cautela. Si usa anche in tono di deplorazione o di scusa, riferendosi a decisione presa da parte di una persona accecata dall’ira, sotto gli effetti dell’ira.

  1. AB ORIGINE – Dall’origine. Locuzione propria della classicità latina, ampiamente usata dagli scrittori e dagli storici latini per significare: dall’inizio, dal principio.

In tema, non mancano significative espressioni letterarie: nascentes morimur, finisque ab origine pendet – nascendo moriamo e la fine incombe fin dal principio (Manilio, Astronomica, 4, 16), indica che alla nascita consegue inevitabilmente la morte; omnes si ad originem primam revocantur, a dis sunt – se risaliamo alla prima origine, tutti veniamo da Dio (Seneca, Epistole, 44, 1), indica che Dio è all’origine di tutto.

Nell’uso comune, ab origine (in it. è loc. avv.) surroga espressioni del tipo: fin dalle origini, originariamente, fin da principio, dal primo principio, fin dalla nascita, fin da quando ha avuto inizio, et sim. Si dice, ad es., che secondo la tradizione la fondazione di Roma, quale Città-Stato, risale alla metà dell’VIII secolo a. C. (21 aprile del 753 a. C., ante Christum – prima della nascita di Cristo) e ab origine la sua struttura politico-istituzionale era imperniata su tre organi: il re, il senato e il comizio.

In ambiti giuridici, si dice ad es.: che la mancata conclusione del negozio giuridico impedisce ab origine la produzione di qualsiasi possibile effetto; che l’attività intrapresa dal gestore deve ab origine arrecare un utile al gerito; per potersi considerare utilmente iniziata la gestione di affare altrui, occorre dimostrare che la stessa ab origine era diretta ad impedire in tutto o in parte un pregiudizio economico sul patrimonio dell’interessato.

  1. ABORTUS – Aborto. I testi di storia indicano che in età classica l’aborto era considerato un atto irrilevante per il ius civile, in quanto praticato su un essere non ancora divenuto soggetto giuridico.

In età postclassica, a seguito di un rescriptum di Antonino Pio e di Settimo Severo, la provocazione dell’aborto con filtri venefici, pocula obortionis, venne considerata una figura delittuosa, perseguita extra ordinem con sanzioni penali (relegatio in insulam, publicatio bonorum).

Nel nostro contesto, in tema di abortus, inteso come interruzione spontanea o procurata della gravidanza (si considera come periodo di gravidanza quello che intercorre tra la fecondazione e la nascita del feto), vale la disciplina di cui alla Legge 22 maggio 1978 n. 194 e succ. mod.

L’aborto può essere praticato solo nelle strutture ospedaliere pubbliche come interruzione volontaria di gravidanza, richiesta dalla donna prima del 90° giorno di gestazione. È praticato anche successivamente a tale termine quando la prosecuzione della gravidanza comporti un grave pericolo per la vita della donna o quando siano state accertate rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna.

  1. AB OVO USQUE AD MALA – Dall’uovo fino alle mele, a partire dall’uovo e fino alle mele. Secondo la tradizione, il pasto presso gli antichi romani iniziava con le uova sode, ab ovo (che nelle abitudini culinarie dei romani costituivano l’antipasto), e terminava poi con le mele, usque ad mala (con la frutta).

L’espressione ab ovo risulta però di altre e ben più nobili origini. La fonte è un verso oraziano che, nel parlare dell’arte narrativa di Omero, rileva come quest’ultimo: nec gemino bellum Troianum orditur ab ovo – né la guerra troiana cominci dal doppio uovo, non cominci a raccontare la guerra di Troia dalla storia delle due uova (nate da Leda dopo il suo accoppiamento con Zeus in forma di cigno), ma trascini l’ascoltatore in medias res, senza soffermarsi sugli antefatti della vicenda (Orazio, Ars poetica, 147).

 Dal contesto oraziano, si coglie l’implicito invito a non cominciare ab ovo nel raccontare una vicenda storica, a non farla troppo lunga, a non rifarsi troppo da lontano, salvo che questa metodologia non sia una necessità di ordine narrativo. Più esattamente, a chi sogna di diventare scrittore, Orazio consiglia, ad instar dell’icastico stile omerico, di non perdersi troppo nel racconto degli antefatti, di non cominciare ab ovo ma di entrare subito in argomento. Nella leggenda, Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta, fecondata da Giove, tramutato in cigno, concepì due uova: dal primo uovo nacquero Castore e Clitemnestra e dal secondo Polluce ed Elena. Quest’ultima, andata sposa a Menelao, divenuto nel frattempo re di Sparta, venne rapita dal principe troiano Paride. Tale rapimento determinò la causa della guerra di Troia cantata da Omero. Da notare che l’ellissi ab ovo ricorre con valore negativo anche in altri contesti oraziani (cfr. ad es. Satire, III, 6-7).

L’espressione oraziana ab ovo (in it. è loc. avv.) è divenuta d’uso comune per alludere ad una storia o ad una questione che, senza alcuna necessità, viene descritta fin dai più remoti antefatti, dalle sue più lontane origini. Quindi, narrare una cosa ab ovo significa prendere la questione un po’ troppo alla lontana: dalle origini, dal principio.

  1. ABROGATIO – Abrogazione. Il sistema del diritto romano non contemplava l’abrogazione espressa di una legge, limitandosi ad una eventuale abrogazione tacita, determinata da una nuova legge disciplinante la medesima materia. Vigendo il principio generale secondo cui ogni legge era destinata ad avere perpetua vigenza, una legge nuova non poteva abrogare espressamente la precedente.

 Il termine abrogatio è passato nella moderna fraseologia, ad opera dei giuristi delle varie epoche, e divenuto d’uso corrente per significare che si intende togliere vigore, valore od effetto ad una disposizione di legge.

Il concetto di abrogazione, in accezione moderna, è compendiato nella massima: abrogatur quum prorsus tollitur – la si abroga (una legge) quando la si abolisca del tutto ed è inteso nel senso di soppressione di una legge (o di una norma di legge) e più esattamente di cessazione dell’obbligatorietà di una legge (o di una norma di legge), per effetto di altra successiva volta a regolare la medesima materia. Nel quadro delineato dal vigente ordinamento, sono contemplati tre tipi di abrogazione:

– abrogazione espressa, che si ha quando la legge abrogatrice indica espressamente la legge o la norma abrogata;

– abrogazione per incompatibilità, detta anche abrogazione tacita, rappresentata dall’obiettivo contrasto tra il principio informatore della prima e quello della seconda norma, prescindendo dall’animus abrogandi del Legislatore;

  – abrogazione per regolamentazione ex novo dell’intera materia, detta abrogazione implicita, che si ha quando il Legislatore introduce un nuovo, esaustivo ed organico sistema normativo: abrogatur legi quum prorsus tollitur – si abroga una legge quando si abolisce del tutto.

 In diritto amministrativo, si suole impropriamente definire abrogazione la cessazione di efficacia di un atto amministrativo, in quanto non più rispondente alle mutate situazioni di pubblico interesse sopravvenute. Più precisamente, si dice del venire meno di una norma giuridica prevista da atti amministrativi con contenuto normativo per incompatibilità con altra norma giuridica successiva di pari valore.

L’abrogazione, id est la cessazione di vigenza della legge abrogata, di regola, ha effetto dall’entrata in vigore della nuova legge e, rispettivamente, in caso di abrogazione di norma giuridica prevista da un atto amministrativo con contenuto normativo dalla data di esecutività del nuovo atto amministrativo.

  1. ABRUPTE – Improvvisamente. Forma del latino medievale, benché l’etimo risalga alla letteratura latina, usata nel significato generico di: cominciare di colpo.

Più frequentemente, oggi si usa la locuzione ex abrupto per indicare discorsi o scritti che incominciano senza preamboli oppure per indicare la brusca intromissione in un discorso altrui (amplius, cfr. la voce sub n. 1573).

  1. ABSENTEM LAEDIT CUM EBRIO QUI LITIGAT – Chi litiga con un ubriaco offende un assente (Publilio Syro, Sententiae). L’adagio publiliano allude alla situazione patologica di un ubriaco, id est alla temporanea incapacità di intendere e di volere di una persona. Si cita per indicare che è inutile prendersela con chi al momento è incapace di intendere e di volere.

In campo letterario, fa spicco la definizione senecana: nihil aliud est ebrietas quam voluntaria insania – null’altro è l’ebrezza che una volontaria pazzia (Seneca, Epistulae, 83, 17), fatta propria dal linguaggio giuridico per indicare che l’ubriachezza procurata, cioè non derivata da caso fortuito o da forza maggiore, non esclude né diminuisce l’imputabilità.

Il vigente ordinamento considera sotto vari aspetti l’ubriachezza (cfr. artt. 91-95 e 688-691 c.p.), distinguendo a seconda che sia piena o meno, che sia accidentale, volontaria preordinata o abituale (amplius, cfr. le voci sub nn. 3102, 3522, 4323, 5203).

  1. ABSENTEM ACCIPERE DEBEMUS EUM, QUI NON EST EO LOCI, IN QUO LOCO PETITUR – Dobbiamo ritenere assente colui che non si trova nel luogo in cui viene cercato. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica (Ulpiano) e alla compilazione giustinianea, per indicare che si considera assente chi non si trova presso la propria abituale dimora. Sarebbe di fonte ulpianea anche l’ulteriore precisazione, fatta propria dalla compilazione giustinianea: qui extra continentia urbis est, abest – si considera assente chi è fuori dei circondari della città (Digesto, XXIII, 2, 10).

Nel nostro contesto, secondo l’art. 139 c.p.c., una persona si deve ritenere assente quando non viene trovata nel Comune di residenza, nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio. Si parla di assenza quando un soggetto non sia più reperibile nel luogo del suo ultimo domicilio e non se ne abbiano notizie da almeno due anni.

Le norme prevedono la dichiarazione di assenza da parte dell’autorità giudiziaria, comportante tutta una serie di provvedimenti a tutela dell’assente e dei terzi, ed altresì l’adozione di un provvedimento di curatela patrimoniale da parte dell’autorità giudiziaria (cfr. la voce sub n. 36).

  1. ABSENTIA DOMINI – Assenza del titolare del diritto. Espressione della tradizione giuridica per indicare la temporanea assenza dell’interessato dal luogo in cui un suo affare esige di essere gestito.

 Nell’uso comune, si dice che una data azione od attività è stata compiuta in temporanea assenza del responsabile (del titolare del diritto: del padrone, del proprietario, dell’imprenditore, del capo, del dirigente, etc.) o in assenza del diretto interessato, la cui circostanza, come si desume dall’art. 2028 c.c., costituisce uno dei presupposti dell’istituto della negotiorum gestio (cfr. la voce sub n. 3384).

Invero, è oggi molto dibattuta la questione se nella negotiorum gestio, oltre ai normali presupposti, sia richiesta anche la absentia domini; a tal proposito la Cassazione ha sentenziato che gli effetti dell’utile gestione non sono impediti dalla scientia dell’interessato, cioè dalla sua passiva conoscenza dell’attività del terzo.

  1. ABSENTIA LONGA MORTI AEQUIPERATUR – Una lunga assenza si equipara alla morte. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica (Ulpiano, Gaio) e alla compilazione giustinianea, per indicare che la lunga assenza di un soggetto dal luogo dove sta normalmente è equiparata alla morte.

Nel nostro contesto, si considera assente il soggetto che non sia più reperibile nel luogo del suo ultimo domicilio e non se ne abbiano più notizie da almeno dieci anni (o anche da minor tempo se la scomparsa è avvenuta durante guerre, disastri, terremoti, etc.). Trattasi dell’istituto della dichiarazione di morte presunta, di cui agli artt. 58 – 68 c.c., la cui disciplina prevede l’adozione del provvedimento di curatela patrimoniale da parte dell’autorità giudiziaria, l’atto formale di dichiarazione dell’assenza con cui l’autorità giudiziaria, constata la prolungata scomparsa di una persona, emette provvedimenti a tutela sia dell’assente sia dei terzi, consistenti nell’immissione degli eredi nel possesso temporaneo dei beni dello scomparso. La dichiarazione di morte presunta produce effetti analoghi a quelli prodotti dalla morte accertata in via diretta: gli aventi diritto possono disporre liberamente dei beni (art. 63 c.c.), il coniuge può contrarre nuovo matrimonio (art. 65 c.c.).

In campo militare, il codice vieta al soldato di allontanarsi dal corpo di appartenenza senza la dovuta autorizzazione, comminando pesanti sanzioni disciplinari in caso di trasgressione del divieto; se l’assenza si prolunga oltre i cinque giorni viene ipso facto identificata nel reato di diserzione ed in caso di guerra in un periodo più breve.

  1. ABSIT INIURIA VERBIS – Sia lungi dalle parole l’offesa, non ci sia offesa nelle parole (sia detto senza voler offendere). L’origine di questa frase non è nota ma con tutta probabilità deriva dalla deformazione di un passo di Livio. Nell’opera di Livio, Ab Urbe condita (libri, 9, 19, cap. 19 ed altresì 36, 7, 7), appare nella versione: absit invidia verbo – l’ostilità stia lontana dalle mie parole, nel senso che non le tocchi, non le colpisca, sottintendendo di non prendere come un’offesa una determinata parola o frase.

L’espressione absit iniuria verbis (in it. è loc. avv.) è oggi d’uso comune per accompagnare qualcosa di non gradito per chi ascolta ovvero per attenuare ciò che si dice con assoluta franchezza o per amore di verità ma tuttavia senza alcun malanimo. In genere, si usa per attenuare l’effetto di una frase pungente oppure per farsi scusare un’espressione inopportuna o che potrebbe apparire ingiuriosa per chi ascolta e quindi per indicare l’assenza di intenzione di offesa nel riportare qualcosa.

 Più in generale, absit iniuria verbis, al singolare absit iniuria verbo, si usa per escludere a priori cattive interpretazioni, atteso che in talune situazioni suona come implicito invito rivolto a chi legge oppure a chi ascolta a non deformare in senso maligno o malizioso il significato di una parola o di un’espressione. In talune altre situazioni, si usa la parallela espressione: absit omen – escluso ogni cattivo augurio, per significare che si intende fare gli scongiuri perché qualcosa non accada.

Nelle forme colloquiali, trova molteplici occasioni di impiego come equivalente di: sia detto senza offesa, l’offesa sia lontana dalla parola, sia detto senza ingiuria, sia detto senza intenzione di offendere, sia lungi dalla parola ogni intenzione di offendere, si tolga ogni significato ingiurioso alla parola, et sim.

  1. ABSOLUTA SENTENTIA EXPOSITORE NON INDIGET – Una chiara esposizione non abbisogna di spiegazioni. Formula giuridica, riconducibile alla compilazione giustinianea, per indicare che una massima del tutto chiara non richiede che nessuno la spieghi, un chiaro concetto per essere compreso non abbisogna di ulteriori commenti.

Nel linguaggio giuridico, l’espressione latina absoluta sententia (restando sottinteso il resto) è d’uso comune per indicare che una chiara definizione, un chiaro parere, una chiara interpretazione, non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

  1. ABSOLUTIO A CAUSA – Assoluzione dalla causa. Forma della tradizione giuridica per indicare l’assoluzione incondizionata e più propriamente una sentenza assolutoria pronunciata con formula piena. Si dice in pratica di sentenza che solleva l’imputato da ogni responsabilità penale perché il fatto non sussiste.

Nel nostro contesto, la sentenza assolutoria è il provvedimento del giudice penale con il quale proscioglie l’imputato dal reato di cui è accusato: se il fatto non sussiste; se l’imputato non lo ha commesso; se il fatto non costituisce reato; se il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione; se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile. Il vigente c.p.p. non prevede l’assoluzione per insufficienza di prove e quindi il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria, la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile (art. 530 c.p.p.).

  1. ABSOLUTIO A LIMINE – Assoluzione dalla soglia, assoluzione fin dall’ingresso. Forma della tradizione giuridica per indicare il caso di assoluzione del convenuto fin dal primo inizio, fin dal primo momento, fin dal primo insorgere della controversia o della materia del contendere.

Nel nostro contesto, propriamente nel processo penale, si dice dell’assoluzione pronunciata già durante la fase istruttoria, con sentenza definita di proscioglimento istruttorio e volta a sollevare l’imputato da ogni responsabilità penale. Nel linguaggio dei penalisti è attestata anche la forma absolutio ab instantia – assoluzione dall’istanza, per indicare l’assoluzione per mancanza di prove.

Nel processo civile, si dice absolutio ab actione – assoluzione dall’azione la pronuncia con la quale il giudice, difettando le condizioni dell’azione, respinge la domanda dell’attore e assolve il convenuto, ex artt. 81 e 100 c.p.c. Si dice invece absolutio ab instantia la reiezione della domanda per motivi processuali. Infine, si dice a limine – preliminarmente una questione che viene decisa per prima senza affrontarne altre.

  1. ABSOLUTUS SENTENTIA IUDICIS, PRAESUMITUR INNOCENS – Chi è assolto con sentenza del giudice si presume innocente. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica e alla compilazione giustinianea, per esprimere il principio di non colpevolezza e/o di innocenza dell’imputato fino alla sentenza definitiva del giudice.

Nel quadro attuale, il principio è sostanzialmente compendiato nell’art. 27, secondo comma, Cost., in base al quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla sua condanna definitiva.

  1. ABSTINE ET SUSTINE – Astieniti e sopporta. Celebre motto, attribuito al filosofo greco Epitteto (50 – 138 d. C.) da Gellio Aulo, scrittore ed erudito latino (II sec. d.C.), fatto proprio dall’intera filosofia stoica latina. Il pensiero di Epitteto, pervenutoci grazie agli appunti di Arriano di Nicomedia suo discepolo, manifesta l’opposizione fra il mondo esterno dominato da una necessità, di fronte alla quale l’uomo nulla può, e la ragione, di cui l’uomo dispone per affrancarsi dalla schiavitù delle cose. La libertà consisterebbe, quindi, in un esercizio di sopportazione e di astinenza, sustine et abstine. Nell’etica della filosofia stoica, il motto riflette una norma di comportamento civico e politico che invita a sopportare quel che capita, poiché tutto ciò che accade è necessario e provvidenziale e, nel contempo, invita ad occuparsi delle cose in nostro potere e di astenersi dal tentare di fare ciò che non è in nostro potere. Ed in quest’ultimo senso, l’adagio quintiliano: non tentanda quae effici omnino non possint – non bisogna tentare di fare ciò che non è possibile realizzare (Quintiliano, 4, 5, 17) esorta ad astenersi dall’intraprendere cose non concretizzabili.

 Invero, nei contesti stoici, l’espressione abstine et sustine è assunta anche in altra accezione, cioè per indicare: astienti da tutto ciò che è di pregiudizio alla tua libertà, sopporta i mali che possono derivarti dall’indipendenza. Ed in tema di sopportazione dei mali, il verso ciceroniano: mortalis nemo est, quem non attingat dolor morbusque – non vi è mortale che non sia colpito dal dolore e dai mali (Cicerone, Tusculanae disputationes, 3, 59) ed il parallelo del grammatico latino Prisciano di Cesarea (V sec. d.C.): non potest inveniri vita hominis carens molestia – non è possibile trovare la vita di un uomo priva di dolore (Prisciano, Praeexercitamina, 433 K) sottolineano l’ineluttabilità del dolore.

Il motivo de quo traspare anche dal verso senecano: optimum est pati quod emendare non possis – è ottima cosa sopportare quello per cui non v’è rimedio (Seneca, Epistulae, 107, 9) e da quello oraziano: ferre iugum pariter – sopporta parimenti il giogo (Orazio, 1, 35, 28), quest’ultimo riferito a due persone che sopportano le medesime avversità o che le sopportano insieme. Sempre in tema, è anche l’insegnamento publiliano: concettualmente simile ad altro: mutare quod non possis, ut natum est, feras – sopporta ciò che non puoi cambiare (Publilio Syro, M 62), che esortano ad accettare serenamente i momenti tristi della vita.

In ambito religioso, il parallelo motto: certa viriliter sustine patienter – combatti virilmente e sopporta pazientemente (Tommaso da Kempis, Imitatio Christi, III, 19, 4) designa la lotta spirituale del soldato cristiano, motto citato anche in senso estensivo con riferimento a situazioni difficili che richiedono forza e tenacia. Secondo fonti di ispirazione religiosa, il motto si sostanzia in un’esortazione ad astenersi da tutto ciò che è impuro e caduco ed altresì costituisce un invito a sopportare pazientemente una sfavorevole situazione, per quanto dolorosa, considerando un avverso avvenimento come disegno di una superiore provvidenza.

 L’espressione latina abstine et sustine suona oggi come consiglio di astenersi da tentativi velleitari e di sopportare quello a cui non può porsi rimedio. Secondo gli insegnamenti dei grandi maestri di vita, il motto suona come esortazione ad essere forti d’animo, ad aver la forza di rinunziare e di tenersi lontano da tutto ciò che non è in proprio potere e a sopportare quel che accade. Più genericamente, suona come esortazione a trattenersi dal fare o dal dire qualcosa (ad es. dalla maldicenza, dai giudizi avventati) ma anche come consiglio di accettare senza reagire situazioni disagevoli quando queste rappresentano il male minore o comunque un male inevitabile.

Si cita in genere nei momenti difficili per esortare ad avere pazienza, sottintendendo: astienti da tutto ciò che può turbare la tua serenità e sopporta con la calma dei forti i mali e i dolori della vita, stringi i denti e aspetta tempi migliori.

  1. ABUNDANS CAUTELA NON NOCET – L’eccessiva precauzione non guasta, una cautela esagerata non nuoce. Adagio di antica saggezza, ascritto a Cicerone ma concettualmente presente anche in altri classici latini, come ad es. in Ars grammatica di Carisio Flavio Sosipatro (IV sec. d. C.). In tema, è anche l’adagio terenziano: omnia prius experiri quam armis sapientem decet – al saggio si addice tentare ogni cosa prima di passare alle armi (Terenzio, Eunuchus, 4, 7, 19) che raccomanda la calma e la prudenza prima di giungere a soluzioni estreme, nonchè il ciceroniano: ut medicina valetudinis, sic vivendi ars est prudentia – come la medicina è l’arte della salute, così la prudenza è l’arte del saper vivere (Cicerone, De finibus, 5, 6, 16), che esorta ad agire con prudenza, mentre il catoniano: namque solent, primo quae sunt neglecta, nocere – infatti, le cose trascurate all’inizio finiscono di solito per danneggiare (Catone, Distici, 4, 9, 2) indica che, a fini di cautela, le cose contrarie ai nostri obiettivi vanno bloccate fin dall’inizio prima che producano danni irreparabili.

Del concetto de quo se n’è appropriata anche la giurisprudenza postclassica (Paolo) ed acquisito poi nei testi giustinianei (Cod. Iust. 6, 23, 17).

In chiave giuridica, l’adagio abundans cautela non nocet allude alle cautele che si sogliono prendere nei casi in cui si profilino fasi caratterizzate da incertezza, in vista delle quali si preferisce aggiungere qualcosa che, pur non strettamente necessario, viene però ritenuto opportuno per non trascurare alcun elemento idoneo od utile alla salvaguardia delle proprie tesi o posizioni.

In materia contrattuale, si usa anche in senso negativo alludendo all’inserimento di clausole sovrabbondanti in un contratto, tese a procurarsi eccessive cautele. La ricerca di simili forme esagerate di sicurezza e il premunirsi di eccessive o maggiori cautele, nella pratica forense sono dette forme di tuziorismo giuridico.

  1. AB UNO DISCE OMNES – Da uno conoscili tutti, da uno impara a conoscerli tutti, da uno solo capisci come sono tutti gli altri. Sono le parole con cui Virgilio, dallo spergiuro di Sinone (il greco traditore che ha facilitato l’ingresso nelle mura di Troia del fatidico cavallo di legno pieno di armati, fatale avvenimento che segnò la fine della città), trae motivo di accusa generalizzata nei confronti dei Greci (Virgilio, Eneide, II, 65-66).

L’espressione virgiliana è in effetti una riprovazione verso tutti indistintamente i Greci, sia per la loro slealtà sia per la loro perfidia: accipe nunc Danaum insidias et crimine ab uno disce omnes – ed ora ascoltate le insidie dei Greci e da un solo loro inganno imparate a conoscere tutti gli altri.

Virgilio, nella sua descrizione sui Greci ingannatori, non risparmia neppure Epeo, costruttore del cavallo di Troia (simbolo della perfidia greca), definendolo doli fabricator Epeos – Epeo, fabbro d’inganni (Virgilio, Eneide, II, 106). Occorre peraltro ricordare che nell’antica Roma era molto diffusa l’opinione della scarsa affidabilità dei Greci. I riferimenti in tal senso sono copiosi nella letteratura latina.

Il detto virgiliano ab uno disce omnes si cita per indicare che da un solo esempio o da alcuni particolari si può dedurre come sia la totalità. Con riferimento ad un gruppo di persone di una certa risma, si dice che come è una di loro così si presume siano tutte, nel senso che si considerano tutte uguali. Con riferimento a determinate persone, è un modo eufemistico che allude ad uno sbrigativo processo deduttivo.

  1. AB URBE CONDITA – Dalla fondazione dell’Urbe, dalla città fondata. È la tradizionale espressione con cui gli storici ed eruditi romani indicavano l’anno di fondazione di Roma (e Ab urbe condita libri è anche il titolo usato da Tito Livio per la sua grande opera sulla storia di Roma), mentre la data delle leggi e delle iscrizioni ufficiali era indicata preferibilmente col nome del magistrato in carica.

Comunemente, ab urbe condita si traduce «a datare dalla fondazione della città», riferendosi scilicet alla città di Roma, considerata la città per antonomasia. Senza disquisire sulle origini di Roma, ossia sulla fondazione da parte degli Etruschi o sulla preesistenza di una città latina, sta di fatto che gli Etruschi introdussero per primi in Italia il modello della Città-Stato e che estesero il loro dominio, e con esso l’organizzazione cittadina, a tutta la Toscana, spingendosi verso l’VIII e VII sec. a. C. anche a Nord fino a Melpo (Milano), Felsina (che, venuta poi in mano ai Galli verso il 360 a. C., venne da loro batezzata Bononia – Bologna) e Mantova ed a Sud fino a Fidene, Capua, Nola.

Secondo la tradizione formatasi da Varrone in poi (e cioè dalla prima metà del I° sec. a. C.), la Città-Stato di Roma sarebbe stata fondata il 21 aprile del 753 a. C. (si dice così che Cristo nacque nel 753 a. U. c. e morì nel 786 a. U. c.). I primitivi insediamenti umani sul Palatino e sull’Esquilino, secondo fonti accreditate, sarebbero quelli originati dal popolo latino dei prischi, popolo sottomesso poi dagli etruschi. La popolazione indigena latina avrebbe costituito l’origine della classe plebea, mentre la popolazione etrusca l’origine di quella patrizia. Fin dalla sua fondazione, l’organizzazione cittadina di Roma assunse la connotazione di una civitas, intesa come corporazione di uomini liberi e sovrani, ad imitazione delle Città-Stato esistenti nel mondo ellenico, dotata di tre organi fondamentali: uno o più capi, un consiglio degli anziani (senato), un’assemblea popolare (comizio).

L’espressione ab urbe condita (in it. è loc. avv.) è oggi usata in testi letterari ed epigrafici (anche con le semplici iniziali a. u. c.) per indicare l’era che muove dall’anno della fondazione di Roma (753 a. C.).

  1. AB URBIS FABRICAM – Per la fabbrica della città. Secondo la tradizione, l’espressione risalirebbe al tempo della ricostruzione della Basilica di San Pietro (la prima Basilica è stata costruita ad iniziativa di Costantino sul sito della sepoltura dell’apostolo Pietro). I carri che portavano il materiale edilizio ad uso della costruzione della Basilica recavano la sigla « ab u. f. », per significare che potevano circolare liberamente e che erano esenti da dazi e gabelle. L’espressione ab usum fabricae – per l’uso della costruzione (abbreviata nella sigla a. u. f.) sarebbe stata poi apposta anche sui materiali destinati alla costruzione del Duomo di Santa Maria del Fiore di Firenze, materiali esenti da ogni dazio e gabella (l’etimologia fiorentina era propriamente: Ad usum Florentinae Operae – all’uso dell’opera fiorentina). E sempre secondo la tradizione, da questa sigla deriverebbe l’espressione toscana a ufo, cioè a sbaffo, a spese degli altri. L’espressione linguistica si ricollega in qualche modo anche alla costruzione del Duomo di Milano, abbreviata nella sigla a. u. f., sigla che esentava dai pedaggi i barconi in servizio per il Duomo.

Nel linguaggio comune, l’espressione a ufo si usa in genere con sfumatura negativa per indicare un approfittatore, uno che sfrutta una situazione favorevole a spese altrui.

  1. ABUSUS – Abuso. Termine della tradizione romanistica per designare cattivo uso, uso eccessivo o smodato, uso illegittimo, uso improprio di una cosa, esercizio illegittimo di un diritto, di un potere o di un ufficio.

In continuità con la tradizione giuridica, ancora oggi in diritto privato si parla di abuso allorché il diritto soggettivo venga esercitato oltre i limiti stabiliti dalla legge. Tra le principali figure di abuso nell’esercizio di un diritto soggettivo si annoverano le seguenti:

– il diritto di proprietà, allorquando il proprietario compie atti di godimento della cosa che non hanno altro scopo se non quello di nuocere o recare molestia ad altri (art. 833 c.c.);

– l’esecuzione del contratto, allorquando nell’esercizio di diritti si realizza uno scopo diverso da quello cui sono preordinati, violando norme che impongono la buona fede (art. 1375 c.c.);

 – il potere di rappresentanza, nel caso in cui il rappresentante abbia fatto cattivo uso del suo potere, agendo per un fine diverso da quello per il quale il potere è stato conferito, con il perseguimento di un interesse proprio o di terzi in contrasto con gli interessi del rappresentato (artt. 1394 – 1395 c.c.).

 Ulteriore particolare figura rilevante in diritto privato è quella dell’abuso dell’immagine altrui, che si ha quando l’immagine di una persona sia stata pubblicata o esposta fuori dei casi consentiti per cui ne derivi pregiudizio al decoro o alla reputazione; in tal caso si può chiedere che l’autorità giudiziaria faccia cessare l’abuso, salvo il diritto al risarcimento dei danni.

In diritto penale, si parla di abuso in svariate ipotesi e sotto ipotesi. Si definiscono come abuso numerosi illeciti riconducibili all’uso illegittimo di una cosa o all’esercizio illegittimo di un potere, come ad es.: abuso di autorità, di relazioni domestiche, di relazioni di ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione, di ospitalità (art. 61 c.p.), abuso della credulità popolare (art. 661 c.p.), abuso di distintivo, di titoli o di onori (art. 498 c.p.), abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.), abuso dei poteri inerenti alle funzioni del pubblico ufficiale (artt. 7, 31, 61, 323, 605, 606, 609, 615 c.p.), abuso della potestà dei genitori (art. 34 c.p.), abuso della qualità di pubblico ufficiale (artt. 326, 520, 521 c.p.), abuso della qualità di incaricato di pubblico servizio (art. 326 c.p.), abuso da parte del personale addetto alle poste, telegrafi e telefoni (art. 619 c.p.), abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), abuso di ufficio (art. 323 c.p., così come modificato dalla Legge 26 aprile 1990 n. 86), abuso di foglio in bianco, etc. Una peculiare figura è quella di abuso di posizione dominante, ex art. 86 Tr. CEE e art. 3 della Legge 10 ottobre 1990 n. 287.

  1. ABUSUS NON TOLLIT USUM – L’abuso non fa venir meno l’uso, l’abuso non esclude l’uso, l’abuso non toglie l’uso. Formula giuridica per indicare che il cattivo uso di una cosa non è di per sé idoneo a variare la situazione di diritto, così come l’impiego distorto di un diritto o di un bene non elimina il diritto o il bene stesso, l’uso illegittimo non toglie il diritto all’uso.

Nel quadro applicativo e interpretativo delle norme giuridiche, indica che l’uso distorto o l’abuso invalso nell’attivazione di una norma di legge non significa che la norma sia in sé sbagliata ma che occorre invece procedere ad una corretta applicazione e interpretazione della norma medesima. L’abuso che si fa di una cosa non significa che di essa non si possa fare un ragionevole uso, né significa, in senso per così dire rovesciato, che se l’abuso di qualcosa è dannoso, non per questo è necessario astenersene in assoluto.

Sotto un diverso profilo, la formula de qua da un lato indica che riprovevole è l’abuso e non l’uso e, dall’altro, che l’abuso non porta a condannare anche l’uso. Nell’uno e nell’altro caso, l’abuso di una norma non deve comportare la cessazione della norma stessa, che deve invece essere applicata nei suoi giusti limiti. Tale impostazione è confermata dalla massima: abusus non est usus sed corruptela – l’abuso non è l’uso (normale) ma la sua degenerazione, che delinea il discrimen – la differenza fra l’uso legittimo di un diritto o di un bene e l’abuso, che rappresenta invece una distorta interpretazione del diritto stesso.

  1. ACCEPTILATIO – Accettilazione. Il termine deriva da acceptum ferre – accusare ricevuta. Nella tradizione romanistica era un modo di estinzione dell’obbligazione, consistente in una formale dichiarazione resa dal creditore, su domanda rivolta dal debitore, di aver ricevuto quanto dovuto dal debitore medesimo, anche a prescindere dall’intervenuto pagamento. Alla specifica domanda rivolta dal debitore, il creditore rispondeva affermativamente: acceptum habeo. In prosieguo di tempo, il peculiare istituto venne ad assumere la specifica funzione di remissione del debito.

In materia ereditaria, secondo la descrizione di Pomponio e di Modestino, vigeva poi la regola secondo cui l’atto di accettazione dell’eredità, avendo natura di actus legitimus, non poteva tollerare dichiarazioni di accettare sotto condizione o a termine, pena la nullità: acceptilatio sub condicione fieri non potest – l’accettazione non si può fare sotto condizione.

Nel quadro attuale, in continuità con la tradizione giuridica, è nulla la dichiarazione di accettare l’eredità sotto condizione o a termine ed è parimenti nulla la dichiarazione di accettazione parziale di eredità (art. 475 c.c.).

  1. ACCESSIO – Accessione. Fin dalla tradizione di età classica, l’accessio era un modo di acquisto della proprietà a titolo originario di una cosa, considerata accessoria rispetto ad un’altra a cui si univa, considerata principale, costituendo così una cosa sola. Il proprietario della cosa principale, di norma, acquisiva la proprietà della cosa accessoria. La compilazione giustinianea riporta la definizione di Paolo: mea res per praevalentiam alienam rem trahit meamque efficit (Digesto, VI, I, 23). Invero, sotto il concetto unitario di accessione nella tradizione romanistica venivano raggruppate varie ipotesi di unione tra due cose, in proprietà di soggetti diversi, delle quali l’una si considerava accessoria e l’altra principale:

– accessione di immobile a immobile per effetto di incrementi fluviali: adluvio – alluvione quando particelle di terra portate dalla corrente di un fiume vanno ad incrementare un fondo rivierasco; avulsio – avulsione quando una porzione di terra portata dalla corrente di un fiume aderisce stabilmente ad un fondo rivierasco incrementandolo sensibilmente; insula in flumine nata – isola sorta nel fiume quando in mezzo ad un fiume venga ad affiorare una porzione di terra; alveus derelictus – alveo derelitto quando il letto del fiume sia stato interamente e stabilmente abbandonato dalla sua corrente. In tutti questi casi il proprietario del fondo rivierasco acquisiva generalmente la proprietà dell’incremento fluviale, salvo che il fondo medesimo non risultasse limitato, nel qual caso non si poteva più parlare di accessio ma di occupatio;

– accessione di mobile ad immobile per effetto di implantatio – seminagione e/o piantagione, inaedificatio – edificazione. In entrambi i casi valeva il principio generale secondo cui il proprietario del fondo acquisiva tutto ciò che in esso venga seminato, piantato o edificato.

 – accessione di mobile a mobile per effetto di scriptura – scrittura, ove il materiale usato per scrivere accede al materiale su cui si scrive, tinctura – tintura, ove il colore accede alla stoffa, pictura – pittura, ove i colori accedono alla tela, textura – tessitura, ove i fili accedono al tessuto.

Nelle varie ipotesi suaccennate, laddove possibile, il proprietario della cosa accessoria doveva essere indennizzato per la perdita subita dal proprietario della cosa principale.

 Anche nel contesto del nostro ius positum l’accessione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà, fermo restando il principio della prevalenza del bene principale sull’accessorio. L’istituto consiste nell’acquisto di una proprietà mediante la congiunzione di un bene accessorio a un bene principale di cui già si è proprietari. La materia è regolata in particolare dalle disposizioni di cui agli artt. 934-938, 667, 959, 983, 2811 c.c.

Le principali fattispecie riguardano: le opere fatte dal proprietario del suolo con materiale altrui (art. 935 c.c.), le opere fatte da un terzo con materiali propri sul fondo altrui (art. 936 c.c.), le opere fatte da un terzo con materiali altrui (art. 937 c.c.). Ulteriori figure tipiche riguardano: l’accessione di mobile a immobile (artt. 935-938 c.c.), l’accessione di immobile a immobile per alluvione, avulsione, alveo abbandonato (artt. 941-947 c.c.), di mobile a mobile per unione e commistione (art. 939 c.c.).

In materia ereditaria, si parla poi di accessione del possesso, che si realizza a favore del successore a titolo particolare, il quale unisce al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti.

In via generale, al di fuori dei contesti giuridici anzidetti, oggi si suole definire accessione anche l’adesione ad una dottrina, ad un partito, ad un tendenza, etc. In chiave politica, il verso plautino: hominem nullius coloris – uomo di nessun colore (Plauto, Pseudolus, 1196) si cita per alludere ad un uomo del quale non si conosce l’appartenenza politica, benché in Plauto indicasse un uomo del quale non si sa nulla.

In diritto internazionale, si suole definire accessione l’adesione di uno Stato ad un trattato od accordo già concluso fra altri Stati.

In biblioteconomia, si suole definire accessione l’accrescimento di libri nuovi che vengono ad aggiungersi alle varie collezioni ma si qualificano come accessione anche i nuovi volumi che a mano a mano si aggiungono ad un’opera.

  1. ACCESSIO NEMINI PROFICIT, NISI EI QUI IPSE POSSEDIT – L’accessione giova solamente a chi possiede in nome proprio. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica (Ulpiano) e alla compilazione giustinianea, per indicare che l’accessione non è vantaggiosa per altri se non per colui stesso che ha il possesso: accessiones in eorum persona locum habent qui habent propriam possessionem – le accessioni hanno luogo in quelle persone che hanno un possesso loro proprio, per cui le accessioni si verificano a favore di coloro che hanno un proprio diritto di possesso.

In prosieguo di tempo, il principio ha subito un processo evolutivo, in quanto, ai fini del computo del tempo per l’usucapione, si poteva sommare il tempo del possesso proprio a quello maturato dal proprio dante causa (cfr. la voce successiva, sub n. 52).

Nel quadro attuale, gli artt. 934 e segg. del vigente c.c. dettano una nutrita serie di norme in materia di accessione, a cui si rinvia per la comprensione delle complesse tematiche.

  1. ACCESSIO POSSESSIONIS – Accessione del possesso. In età postclassica, tra i modi di acquisto derivativo del possesso (traditio brevi manu, constitutum possessorium, successio in possessionem), era previsto anche l’istituto dell’accessione del possesso, in virtù del quale l’acquirente a titolo particolare (compratore, legatario) subentrava ad un altro a titolo particolare e non a titolo universale come in caso di successio possessionis (cfr. la voce sub n. 4830).

L’istituto dell’accessio in possessionis, in caso di morte dell’usucapiente, nel consentire la prosecuzione nel possesso al possessore a titolo particolare, consentiva anche, ai fini del computo del tempo per l’usucapione, di sommare il tempo del possesso proprio a quello maturato dall’usucapiente suo dante causa: tempora autoris et successoris coniuguntur – il periodo del dante causa si aggiunge a quello del suo successore.

Nel sistema del vigente ordinamento, l’istituto de quo viene a delinearsi sia atto inter vivos (es. compravendita), sia mortis causa a favore del legatario, così come ipotizzato dal secondo comma dell’art. 1146 c.c. e nel combinato disposto degli artt. 671 e 756 c.c.

In continuità con la tradizione giuridica, il successore a titolo particolare può unire al suo possesso quello del de cuius per goderne gli effetti: possessio defuncti quasi iuncta descendit ad heredem – il possesso attuato dal defunto discende all’erede senza soluzione di continuità. L’unione dei periodi di possesso di due soggetti, ovvero la congiunzione dei possessi, non è però una automatica continuazione del possesso ma soltanto una facoltà in tal senso, perciò il successore a titolo particolare può, se vuole, unire al suo possesso quello del suo autore: lo farà se gli conviene, vi rinuncerà se non avrà interesse. Per la congiunzione dei possessi è in ogni caso richiesta l’effettiva presenza dei requisiti giuridici del nuovo tipo di possesso di cui si invocano gli effetti.

  1. ACCESSIO TEMPORIS – Accessione del tempo. Espressione della tradizione giuridica per indicare che un determinato diritto reale può cadere in prescrizione se non esercitato durante un dato tempo stabilito dalla legge. Nel sistema dell’ordinamento romano, tale forma di praescriptio era conosciuta come extinctiva.

 In chiave moderna, si dicono accessio temporis i periodi di tempo e/o l’unione dei periodi di tempo in cui non è stato esercitato un diritto ai fini della prescrizione. Caso tipico di accessio temporis è quello della prescrizione estintiva della servitù per decorso del tempo. Nel sistema del nostro ius positum, la servitù si estingue per accessio temporis – decorso del tempo, ossia per prescrizione, in mancanza d’uso per venti anni (primo comma, art. 1073 c.c.), per il computo dei quali si calcola anche il tempo in cui i precedenti titolari del fondo dominante non la esercitarono (quarto comma, art. 1073 c.c.).

  1. ACCESSIT – Si è avvicinato (al vincitore). È la terza persona del passato remoto del verbo accedere – avvicinarsi, usata in italiano come s. m. Nelle vecchie scuole e accademie, un tempo si indicava con l’accessit la menzione o il riconoscimento concesso a chi negli esami scolastici o nei concorsi accademici si era più avvicinato al conseguimento del premio oppure al premiato o al vincitore. Otteneva così l’accessit chi riusciva più meritevole dopo il premiato o il vincitore.

In prosieguo di tempo, ottenere l’accessit o riportare l’accessit significava in pratica conseguire la votazione richiesta per il superamento della prova.

  1. ACCESSORIUM SEQUITUR PRINCIPALE – L’accessorio segue il principale. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica (Ulpiano, Paolo, Gaio) e alla compilazione giustinianea, per indicare che il proprietario della cosa principale, unitasi ad altra per accessione, acquista anche la proprietà della cosa accessoria, divenendo così proprietario del tutto: accessio cedit principali – la cosa accessoria segue il regime della cosa principale.

Nei moderni contesti, è il principio generale secondo cui il bene, il diritto, l’azione accessoria seguono lo stesso destino del bene, del diritto, dell’azione principale. In effetti, il principio in questione delinea il rapporto di connessione tra la cosa principale e la cosa accessoria, rapporto caratterizzato da una forza di attrazione esercitata dalla prima sulla seconda, talché le norme e le vicende della cosa principale non possono che interessare anche la cosa accessoria. In pratica, si ha il rapporto di connessione se i singoli elementi complementari, quali parti di una cosa in sé diversa, sono essenziali per la destinazione economica o sociale del bene (si fa l’es. delle ruote rispetto all’automobile).

Il principio è sempre attuale soprattutto in materia di diritti reali. Il proprietario di un fondo è proprietario anche di ciò che a esso è strettamente collegato (es. i frutti), accessorium sequitur suum principalem – ciò che è dipendente segue ciò da cui dipende. Si dice a proposito dei diritti accessori in genere la cui sorte dipende, di norma, dalla sorte del diritto principale e sublato principali tolluntur accessoria – tolto il diritto principale viene meno quello accessorio. L’esempio classico citato nei testi è quello che estinguendo il debito si estingue anche la garanzia. Si parla propriamente di accessori per sottendere il complesso di cose che si accompagnano al bene principale con vincolo di dipendenza.

Nel quadro attuale, il principio che la cosa accessoria segue le sorti della cosa principale, pur subendo le debite eccezioni, è di ampia portata e come tale trova diverse applicazioni: in tema di ipoteca, ex art. 2811, 2878, n. 3, c.c., in tema di pertinenze, ex art. 818 c.c., in tema di azione accessoria, ex art. 40 c.p.c.

  1. ACCESSORIUM NATURAM SEQUI CONGRUIT PRINCIPALIS – L’accessorio naturale segue e si accorda con la cosa principale. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica (Gaio) e alla compilazione giustinianea (Digesto XXXIII, 8, 2).

Nel nostro contesto, il principio è accolto dall’art. 821 c.c., in base al quale i frutti naturali appartengono al proprietario della cosa che li produce. Trattasi, invero, di principio di carattere generale e come tale destinato a riflettersi sulle varie ipotesi di accessorio naturale, per sua natura connesso alla cosa principale.

  1. ACCESSORIUS – Accessorio. Termine della tradizione romanistica (der. di accessum, supino di accedere) per definire una cosa complementare o subordinata ad una cosa principale. Con riferimento ai beni caratterizzati dall’unione di più elementi o parti, si qualificano come beni accessori quelli che, pur mantenendo la loro individualità, sono in rapporto di connessione o di dipendenza con altro bene che, per sua destinazione o collocazione, è detto principale. In conseguenza di tale rapporto, la cosa accessoria segue di regola la sorte giuridica della cosa principale, salvo che sia stabilito diversamente.

Nel nostro contesto, fra le distinzioni dei beni che la dottrina giuridica enumera, in relazione alle diverse conseguenze giuridiche che ne possono derivare, vi è quella fra beni principali e beni accessori. La connessione fra i due beni può dar luogo a due figure specifiche: l’incorporazione, che si ha quando una cosa viene compenetrata in un’altra, la pertinenza, che si concreta nella destinazione di una cosa in modo durevole al servizio o all’ornamento di un’altra.

         Sono definiti come beni accessori le pertinenze e, in genere, i beni incorporati in altri ed altresì quelli destinati al servizio, all’utilità o all’ornamento del bene principale. Si dice anche degli oggetti destinati a completare la funzionalità del bene principale, ad abbellirlo o perfezionarlo (es. accessori dell’automobile).

Si sogliono poi definire diritti accessori quelli che presuppongono l’esistenza di altri diritti principali e che si acquistano e si trasmettono insieme a questi (per es., i diritti di garanzia, che non hanno vita autonoma rispetto al diritto di credito garantito, e gran parte dei cosiddetti diritti potestativi).

  1. ACCESSUS AD AUCTORES – Avvicinamento agli autori. In filologia classica era così definita una sorta di premessa sui contenuti principali dell’opera che i commentatori medievali solevano far precedere al testo commentato.

L’espressione accessus ad auctores, quale introduzione al testo, era usata in ogni genere di opere da parte dei vari commentatori e glossatori medievali, dai testi filosofici, a quelli giuridici, letterari, etc. Nella concezione dell’epoca, era considerato un modo per informare il lettore sugli elementi ispiratori dell’opera, oltre che sui contenuti essenziali e sui fini della stessa.

In chiave giuridica, invece, il termine accessus assume una propria specifica valenza, riferendosi alla facoltà di penetrare nella proprietà altrui, in conformità alle norme di legge o agli accordi fra le parti. Infatti, il proprietario di un fondo non può impedire che altri entrino nel proprio fondo per l’esercizio della caccia se il fondo non è chiuso o vi sono colture in atto suscettibili di danni; invece, per l’esercizio della pesca occorre il consenso del proprietario del fondo (art. 842 c.c.). Il proprietario deve permettere l’accesso e il passaggio nel suo fondo anche al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino oppure comune. Se l’accesso cagiona danno, è dovuta una adeguata indennità. Il proprietario deve poi permettere l’accesso per consentire di riprendere una cosa sua o un animale sfuggito alla custodia (art. 843 c.c.). Infine, il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità (art. 844 c.c.).

  1. ACCIDENTALIA DELICTI – Elementi accidentali del reato. Espressione della tradizione giuridica per designare le varie circostanze del reato, cioè quell’insieme di elementi la cui presenza o meno non incide sull’esistenza o sull’essenza del reato bensì influisce sulla gravità del reato e sull’entità della pena.

Nel nostro diritto penale gli accidentalia delicti – circostanze (non necessarie) del reato hanno carattere eventuale e quindi possono esserci o non esserci, senza che il reato nella sua forma normale venga meno. La presenza anche di una sola circostanza trasforma il reato semplice in reato circostanziato (cfr. artt. 59-70 c.p.).

  1. ACCIDENTALIA NEGOTII – Elementi accidentali (facoltativi) del negozio. Espressione della tradizione giuridica per indicare le parti accidentali del negozio giuridico, ossia gli elementi che le parti, nell’ambito delle loro facoltà, sono libere di apporre o non apporre. Sono gli elementi aventi carattere facoltativo, introdotti solo per volontà delle parti, senza che siano previsti o voluti dalla legge ai fini della validità del negozio ma che, una volta apposti, ne diventano caratteri imprescindibili destinati ad incidere sull’efficacia del negozio medesimo.

La dottrina giuridica li distingue in generali e particolari: generali sono quelli che possono essere introdotti in tutte le categorie negoziali e che si identificano nella condizione, nel termine e nel modo, particolari sono quelli previsti solo per taluni tipi di negozio e che si identificano nella clausola penale e nella caparra.

  1. ACCIPERE QUAM FACERE PRAESTAT INIURIAM – È meglio ricevere un’offesa (o una ingiustizia) che farla. Aurea massima di antica saggezza greca (Platone, Apologia di Socrate, Gorgia, 469), fatta propria anche dalla letteratura latina, con un profondo significato etico: Cicerone, (Tusculanae disputationes, V, 19, 56); Seneca (Phoenissae, 494); S. Agostino (Enarrationes in Psalmos, 124, 8).

In tema, è anche il monito: in maledicto plus iniuriae quam in manu (est) – si può recare più offesa con le parole che con le azioni (Quintiliano, Institutio Oratoria, VI, 23), che invita a moderare le parole, facendo in modo di non offendere nessuno.

Secondo l’insegnamento plautino: contumeliam si dices, audies – chi ingiuria deve attendersi ingiuria (Plauto, Persa, 4, 7, 77) ed altro pliniano: dedi malum et accepi – ho fatto del male e l’ho ricevuto (Plinio il Giovane, Epistole, 3, 9, 3) chi arreca offesa o fa del male ad altri è destinato a ricevere in cambio il male fatto.

Del pari, a fronte di un’offesa ricevuta, benché l’uomo istintivamente sia portato a rispondere con un’altra offesa, l’aurea massima: accipere quam facere praestat iniuriam esorta a non reagire, così come gli insegnamenti senecani: magni animi est iniurias despicere – è proprio di un animo grande il disprezzare le ingiurie (Seneca, De ira, II, 32); iniuriarum remedium est oblivio – rimedio delle ingiurie è il perdono (Seneca, Epistulae, 94) esortano a dimenticare.

In tema, è anche la storica espressione del Papa Gregorio VII (1013 – 1085, eletto papa nel 1073): dilexi iustitiam et odivi iniquitatem, propterea morior in exsilio – ho amato la giustizia e odiato l’ingiustizia, per questo muoio in esilio.

In sintesi, l’aurea massima de qua suona come esortazione a non reagire ad iniziative di offesa ed indica, in antitetico paradosso, che quand’anche fosse inevitabile porre in essere un’offesa o patire ingiustizia, è preferibile subirla che farla. Oggi, più comunemente si dice: è meglio subire il male che compierlo. Si cita anche a scopo consolatorio allorquando taluno subisca una palese ingiustizia o un torto. In consonanza, un parallelo detto medievale puntualizza: non facias malum, ut inde fiat bonum – non fare il male per farne derivare un bene.

  1. ACCIPIENS – Ricevente, colui che riceve. Propriamente deriva dal verbo latino accipere – prendere, ricevere, qui usato in forma sostantivata, per indicare il soggetto ricevente una determinata res mobile, di cui si impegna a pagare il relativo prezzo o restituire la res medesima. L’accipiens, inteso in senso ampio, si contrappone al solvens, che è colui che effettua un pagamento.

Nella tradizione giuridica, e propriamente nella pratica del commercio, l’accipiens è colui che riceve in conto vendita una cosa mobile obbligandosi a pagarne il prezzo ma riservandosi contemporaneamente la facoltà di restituire la stessa cosa ricevuta se non la vende. Il contratto cui dà vita l’accipiens è detto estimatorio, che si concreta nel ricevere dalla controparte, detta tradens (da tradere-consegnare), una quantità determinata di beni mobili (es. giornalai o rivenditori di particolari articoli) con l’obbligo di pagarne il prezzo, fermo restando che la parte di tali beni non venduta od utilizzata, entro il tempo convenuto, può essere restituita (artt. 1556 – 1558 c.c.).

  1. ACCLAMATIO – Acclamazione. Termine latino (der. da acclamare, comp. di ad – e clamare – gridare) per indicare un grido esuberante di approvazione, una entusiastica manifestazione di comune consenso, ad una proposta che viene accolta con una esultante approvazione unanime.

Nelle tradizioni dell’antica Roma, l’acclamatio dei soldati conferiva ufficialmente al comandante vittorioso il titolo di imperator. Nell’uso comune, l’elezione per acclamatio era la nomina di qualcuno ad una pubblica carica fatta da un’assemblea per comune consenso, senza ricorso al voto.

Nei primi secoli del cristianesimo, secondo le testimonianze paleocristiane, sarebbe stata abbastanza frequente l’acclamatio per l’elezione dei vescovi, mentre erano usuali le acclamazioni di carattere privato nelle cerimonie funebri, quale augurio di pace ai morti, pratica in uso ancora oggi presso molte comunità.

In campo letterario, a proposito di gridare o comunque di parlare ad alta voce, dall’espressione giovenaliana che si richiama al personaggio omerico Stentore: exclamans ut stentora vincere possis – gridi tanto forte che potresti superare Stentore (Giovenale, Satire, XIII, 112), deriverebbe il detto voce stentorea.

Nell’uso comune, si dice dell’accoglimento di una proposta di nomina ad una carica, espressa da una assemblea o da un organo collegiale con entusiastica manifestazione di consenso da parte di tutti gli astanti e non preceduta da formale votazione.

  1. ACCUSARE NEMO SE DEBET – Nessuno è obbligato ad accusare sé medesimo. Celebre adagio ascritto a Cicerone ma il concetto era già largamente sfruttato nella classicità greca (cfr. anche la voce sub n. 1507 e n. 3483).

 Merita essere ricordato il parallelo aforisma di concezione cristiana: accusare nemo se debet nisi coram deo – nessuno è obbligato ad accusare se stesso se non di fronte a Dio. Di un certo interesse è poi la formula: turpitudinem suam nemo detegere tenetur – nessuno è tenuto a mettere allo scoperto la sua turpitudine (qui intesa come disonestà, vergogna).

 In campo giuridico, si dice dell’esimente speciale contemplata dall’art. 384 c.p., in relazione a taluni delitti contro l’attività giudiziaria, tra cui: falsa testimonianza (art. 372 c.p.), falsa perizia o interpretazione (art. 373 c.p.), autocalunnia (art. 369 c.p.), frode processuale (art. 374 c.p.), favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), omissioni di denuncia e di referto (artt. 361 – 365 c.p.), rifiuto di uffici legalmente dovuti (art. 366 c.p.). Trattasi in pratica di fattispecie che si giustificano in relazione alla necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.

  1. ACCUSATOR – Accusatore. Nella tradizione di età classica, l’instaurazione del processo civile aveva luogo a seguito di denunciatio, cioè della notificazione che faceva l’accusator all’accusato, a voce o per scritto, dell’azione che intendeva dirigere contro di lui, con l’intimazione ai testimoni di apparire in giudizio.

Analogamente, anche nel processo della cognitio extra ordinem la denunciatio era il modo di introduzione del processo attraverso la citazione in giudizio recapitata alla controparte da un pubblico funzionario. Il procedimento era poi caratterizzato dalla nomina di un pubblico accusatore con funzioni di tipo inquisitorio. Dalla massima: ubi iudicat qui accusat, vis, non lex valet – dove giudica l’accusatore vige la forza non il diritto si evince che l’accusatore doveva limitarsi ad acquisire le prove, astenendosi dal pronunciare giudizi.

Nel vigente sistema processuale penale, l’accusator identifica il pubblico accusatore, id est il pubblico ministero che, per conto dello Stato, sostiene l’accusa contro l’imputato in un processo e, dopo la sentenza, provvede all’esecuzione della medesima. Il p.m. agisce nell’interesse superiore dello Stato per un fine di diritto pubblico (cfr. art. 112 Cost., art. 409 c.p.p.) ed il potere di accusa a lui affidato deriva direttamente dalla legge.

  1. A COMMUNI OBSERVANTIA NON EST RECEDENDUM – Non si deve discostarsi dalla comune usanza. Formula giuridica, riconducibile alla giurisprudenza postclassica e alla compilazione giustinianea, per richiamare al rispetto delle tradizioni e delle usanze, tanto care alla civiltà greco-romana. Per comprendere il senso e l’essenza del precetto occorre tenere presente che il mondo arcaico romano era caratterizzato dal rispetto assoluto per gli usi, le idee, le tradizioni e le virtù degli avi. Il tradizionalismo, che era una costante del mondo arcaico romano, si concretava anche nella solidarietà e nella dedizione al gruppo di appartenenza.

Era poi molto diffuso e sentito il profondo rispetto delle comunità e dei gruppi organizzati, nonché delle regole vigenti all’interno degli stessi, ed in primis della famiglia di appartenenza. Il padre di famiglia era chiamato a far osservare rigide regole morali, le quali poggiavano, almeno in larga parte, sul profondo rispetto per la fides. Quest’ultima consisteva nel tener fede alla parola propria, ossia alla parola data, dovendosi precipuamente evitare che venga tradita la fiducia che uno aveva riposto in altri.

Il mondo dell’epoca era anche caratterizzato da una generalizzata dedizione al bene comune, ove era molto sentito il senso dell’onore e quello dell’onestà pubblica, nonché della morale tradizionale, intesa come rispetto per gli usi e le idee degli avi, mores maiorum. Un comportamento difforme da questi principi sarebbe stato interpretato come un chiaro segno di volersi discostare dalla comune usanza e dalle tradizionali regole imposte dalla convivenza civile.

In chiave moderna, il precetto de quo suona come invito a non discostarsi dall’uso comune, recte dalla consuetudine (sul concetto generale di consuetudine, cfr. la voce sub n. 885 e sub n. 889).

  1. A CONTRARIO – Dal contrario, (muovendo) dal contrario. Espressione della filosofia medievale, ispirata ad un fondamentale principio della logica aristotelica, quello che, muovendo da un’opposizione tra gli antecedenti, conclude con un’opposizione tra i conseguenti. Il ragionamento a contrario, nella logica aristotelica, è un’argomentazione dialettica di tipo analogico che consiste nel ricavare da ipotesi contrarie conseguenze contrarie, per cui, se un’affermazione è vera, si deduce che quella contraria deve essere falsa.

L’espressione latina a contrario è d’uso comune anche in ambiti girudici per indicare un esito o un risultato diverso da quello auspicato o ricercato, un senso opposto o un opposto punto di vista. Si dice anche argomentazione o di ragionamento a contrario o a contrariis, di motivazione, di concetto o di tesi elaborata a contrariis, alludendo ad una argomentazione dialettica di tipo analogico ricavata da ipotesi contrarie, muovendo dal contrario, secondo le tesi contrarie. Si contrappone all’argomento a pari.

Nel quadro interpretativo delle norme giuridiche, l’argomentazione a contrariis (in it. è loc. avv. e attr.) allude all’importante canone che consiste nel dimostrare la mancanza di senso ovvero le conseguenze assurde che deriverebbero da un ragionamento svolto in senso opposto (cfr. la voce sub n. 2519). Sempre in tema di interpretazione della norma, è poi considerato ragionamento a contrariis quello con cui si evidenzia che se per una determinata materia il legislatore ha previsto una certa disciplina, per materia radicalmente diversa si presume avrà previsto una disciplina diversa.

  1. ACQUISITIO – Acquisto. Termine della tradizione romanistica per indicare l’acquisizione della titolarità di una situazione giuridica, con particolare riferimento alla proprietà o al possesso. Si aveva infatti: l’acquisto della proprietà di una cosa per legge, adquisitio lege, acquisto a mezzo d’altri, adquisitiones non per nosmet ipsos, acquisto in blocco del complesso ereditario da parte del successore, adquisitiones per universitatem – acquisto per successsione universale, acquisto a mezzo di procuratore, adquisitio per procuratorem – acquisto mediante un procuratore, etc.

 Ancora oggi, acquisitio si dice dell’acquisizione della titolarità di una situazione giuridica, di ciò che è divenuto proprietà o possesso di qualcuno. Più in generale, si dice di tutto ciò che, per effetto di un atto o di un fatto idoneo, può considerarsi definitivamente entrato nel patrimonio o nella libera disponibilità della persona. Si parla così di: acquisto di un diritto e del divenirne titolare (si distingue in acquisto originario e derivativo, secondo che sia acquisito ex novo o attraverso un rapporto preesistente tra il vecchio e il nuovo titolare); acquisto della proprietà (art. 42, II comma, Cost., art. 922 e segg. c.c.); acquisto dell’eredità (per effetto dell’accettazione l’erede assume i diritti e gli obblighi del defunto, art. 459); acquisto del legato (art. 649 c.c.); acquisto del possesso (1140 – 1157 c.c.), etc.

Rispetto al modo dell’acquistare o dell’aver acquistato, si suole definire roba di mal acquisto la merce acquistata illecitamente. Si parla poi di incauto acquisto (più propriamente denominato acquisto di cose di sospetta provenienza) da parte di chi acquista o riceve titoli senza averne prima accertata la provenienza o cose che si abbia motivo di sospettare provenienti da reato.

  1. ACQUISITIO HEREDITATIS – Acquisto dell’eredità. Fin dall’arcaico e primitivo sistema del mondo romano, l’eredità poteva spettare sia per testamento, ex testamento, come anche senza testamento, ab intestato, come si desume dalla massima gaiana: nam vel ex testamento vel ab intestato ad nos pertinent – ci spettano infatti o per testamento o senza testamento (Gaio, Istituzioni, II, 99), seguita dal principio secondo cui: intestatorum hereditates ex lege XII Tabularum primum ad suos heredes pertinent – in base alla Legge delle XII Tavole le eredità degli intestati spettano in primo luogo agli eredi propri (Gaio, Istituzioni, III, 1).

L’intestatus, secondo la definizione di Paolo, è la situazione derivante da chi non ha fatto testamento o da chi l’ha fatto ma la cui eredità non è stata adita, perché l’erede non è entrato in possesso o per rinuncia o per impedimenti, quali la morte (Digesto giustinianeo, 50, 16, 54). In ordine al concetto giuridico di sui heredes – eredi propri si rinvia alla relativa voce sub n. 2051.

Ancora oggi, l’acquisto dell’eredità può aver luogo per testamento o per legge (cfr., in particolare, art. 42, IV comma, Cost., artt. 456 – 462, 470 e segg., 587 e segg. c.c.).

  1. ACQUISITIO A NON DOMINO – Acquisto da chi non è proprietario. Formula propria della tradizione romanistica per definire l’acquisto del diritto di proprietà da un dante causa che non è in realtà proprietario, acquisto che per sua natura o destinazione non comportava la piena proprietà ma unicamente il diritto del possesso in godimento.

L’acquisto a non domino non avveniva dunque a pieno titolo come proprietario vero e proprio ma come soggetto avente il diritto in bonis. L’acquirente a non domino poteva acquisire la piena proprietà della cosa e diventare dominus a pieno titolo solo per usucapione, col decorso del tempo all’uopo necessario, tempus ad usucapionem. Nella possessio ad usucapionem della res habilis il sistema giustinianeo quantificò il tempus ad usucapionem come segue: 3 anni per l’usucapione delle res mobiles; 10 anni per la praescriptio longi temporis di res immobiles; 20 anni per la praescriptio longi temporis di res immobiles se usucapiente e proprietario risiedevano in due città diverse.

 In continuità con la tradizione giuridica, l’acquisitio a non domino è ancora oggi l’acquisto del diritto di proprietà da un dante causa che non è in realtà proprietario della cosa alienata. Nell’assetto attuale, l’istituto dell’acquisto a non domino si riflette nelle disposizioni di cui all’art. 1153 c.c.

  1. ACTA – Atti. Nell’antica Roma, acta erano definiti i verbali delle sedute del Senato e degli Organi collegiali, così come gli atti pubblici in genere. Su iniziativa di Cesare, nel 59 a. C., vennero rese pubbliche le decisioni e le deliberazioni del Senato, tramite notiziari esposti in luoghi pubblici, detti acta diurna – cose avvenute durante il giorno. In prosieguo di tempo, vennero definiti acta diurna anche gli avvisi e i notiziari collocati nei luoghi pubblici più frequentati riportanti quotidianamente i principali eventi pubblici e privati.

Nel nostro contesto, fin dal 1909, Acta Apostolicae Sedis è l’organo di stampa ufficiale della Santa Sede comprendente una serie di documenti che vanno dagli atti pontifici (definizioni dogmatiche, encicliche, bolle, etc.) a quelli delle congregazioni, degli uffici e dei tribunali della Curia di Roma (decreti, istruzioni, rescritti, etc.).

In ambiti giuridici, acta sono definiti i documenti processuali, quali essi possono desumersi dal disposto di cui all’art. 163 c.p.c. In tema, cfr. la voce sub n. 226, sub n. 1457, sub n. 2988, sub n. 161, sub n. 4569 ed altre ivi richiamate. Più in generale, si sogliono definire acta gli atti, le relazioni e le compilazioni in genere. Sono definiti acta publica gli atti pubblici a carattere ufficiale emanati dalla pubblica autorità (es. deliberazioni, decreti, ordinanze, ingiunzioni, etc.) e acta diurna i fatti e gli avvenimenti del giorno.

  1. ACTA EST FABULA – Il dramma è finito, la commedia è finita, lo spettacolo è finito. Nell’antica Roma, era la usuale formula conclusiva delle rappresentazioni teatrali con cui un attore annunciava la fine dello spettacolo.

 Ma acta est fabula, secondo l’erudito e biografo romano Svetonio (I-II sec. d.C.), sarebbero anche le ultime parole pronunciate da Augusto sul letto di morte (De vita Caesarum – Vita di Augusto, 99, 1), che proseguendo nella metafora avrebbe poi chiesto agli amici se aveva recitato bene il mimo della vita, aggiungendo quindi: et nunc plaudite – e ora applaudite.

 Occorre peraltro tenere presente che il motivo del teatro (come del resto quello della nave) era fatto oggetto di non poche metafore nell’antichità per rappresentare vicende della vita umana. Da ciò avrebbe avuto origine e sarebbe comunque derivato l’uso figurato dell’espressione de qua.

La metafora della vita come teatro, in cui l’uomo è un attore che rappresenta la sua parte davanti alla collettività che funge da pubblico, traspare anche dal frammento ciceroniano: scenae serviendum est – bisogna venire incontro ai desideri della platea (Cicerone, Epistulae, I, 9, 2). Analoga metafora della vita come teatro, traspare dal frammento petroniano: fere totus mundus exercet histrionem – quasi tutto il mondo recita (Petronio, Satyricon, 673), intendendo che la vita è come una recita, in cui gli uomini sono gli attori. Il topos della vita umana come recita è poi un motivo senecano: humanae vitae mimus – il mimo della vita umana (Seneca, Epistulae ad Lucilium, 80, 7), che allude ai momenti in cui si avverte la sensazione di recitare una parte.

Alla fine della nostra vita è giunto il momento di uscire di scena, proprio come fanno gli attori una volta recitata la loro parte. L’espressione svetoniana si cita per annunciare che si è giunti al termine di qualche cosa, per indicare la chiusura definitiva di una questione, la conclusione definitiva di un evento, la fine di un’impresa, di un’opera, et sim., sottintendendo che tutto è finito, che non c’è più nulla da fare o da aggiungere.

  1. ACTA EXTERIORA INDICANT INTERIORA SECRETA – Atti esteriori manifestano i segreti interiori. Formula giuridica per esprimere il concetto che gli atti esteriori palesano la segreta intenzione, sottintendendo in via di presunzione che lo spirito caratterizzante determinati comportamenti riflette in genere l’intimo ed effettivo animo di chi li assume.
  1. ACTA INTERNA CORPORIS – Atti interni di un corpo, atti interni di un collegio. Formula giuridica per alludere agli atti normativi disciplinanti il funzionamento o l’attività interna di un determinato organo collegiale: legislativo, istituzionale, amministrativo.

Nel quadro attuale, i più importanti acta interna corporis sono i regolamenti parlamentari volti a disciplinare l’organizzazione interna e il funzionamento di ciascuna Camera (art. 64, primo comma, Cost.) e quindi l’espressione sottolinea il carattere di norme interne di funzionamento delle Camere, norme che per loro stessa natura sono sottratte al sindacato di legittimità della Corte Costituzionale.

Più genericamente, si dice dell’attività interna di un determinato organo collegiale: legislativo, istituzionale, amministrativo. Nell’uso burocratico, si dice di ciò che avviene all’interno di un organo collegiale, delle decisioni destinate ad esplicare efficacia solo all’interno di un organo collegiale, di tutto ciò che regola il funzionamento di un organo collegiale. In linea di massima, in assenza di specifiche norme positive, l’organo collegiale è libero di darsi una autonoma organizzazione per il proprio funzionamento, adottando tutti gli atti interna corporis che reputi opportuni. Tale tipologia di atti, non è, di norma, suscettibile di sindacato da parte di soggetti esterni, né è soggetta ad approvazione o controllo nel merito da parte di organi interni o esterni.

 Del resto, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, con conseguente abrogazione degli artt. 125 e 130 della stessa, non è più previsto alcun controllo di legittimità sugli atti degli enti pubblici.

  1. ACTA PUBLICA PROBANT SE IPSA – Gli atti pubblici provano se medesimi, gli atti pubblici si provano da soli. Assioma giuridico di indiscusso pregio e di immutabile attualità anche nella concezione giuridica moderna. Gli acta publica si contrappongono agli acta simulata che: veritatis substantiam mutare non possunt – non possono cambiare la sostanza della verità.

In genere, si dice del disposto di cui all’art. 2699 c.c., in base al quale «l’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato».

Quanto ai contenuti del rogito notarile, la massima: tabellio non potest instrumentum conficere nisi de eo quod in sua praesentia geritur – il notaio non può rogare se non di quanto avviene in sua presenza circoscrive e limita l’iniziativa del notaio nell’esercizio delle funzioni sue proprie. Quanto poi all’efficacia dell’atto pubblico, quale documento materiale con funzione di mezzo di prova privilegiato, l’art. 2700 c.c. dispone che «l’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti». Simile forza probatoria può venire meno solo attraverso un procedimento (querela di falso) volto ad accertare l’oggettiva falsità del documento. In virtù di detti disposti, si deve sempre presumere la veridicità di un atto pubblico (artt. 2699 e 2700 c.c.): pro veritate instrumenti semper praesumitur – si presume sempre la veridicità di un atto pubblico.

Inoltre, a sensi dell’art. 474 c.p.c., l’atto pubblico costituisce titolo esecutivo relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esso contenute. Gli atti e documenti pubblici rendono tra l’altro possibile la creazione di certezza in ordine ai fatti documentati e la facoltà per i terzi di prendere visione presso gli uffici nei quali vengono conservati.

  1. ACTIO – Azione. Nel diritto arcaico della società romana, il comune mezzo di difesa dei diritti dei cittadini era costituito da forme diversificate di autotutela privata. Solo in prosieguo di tempo il giudizio, attraverso regolare processo, assurse al rango di funzione pubblica e conseguentemente si stabilirono anche i comuni mezzi di difesa del cittadino. Tale funzione si estrinsecò attraverso la c. d. iurisdictio, intesa dapprima come manifestazione del potere di imperio dello Stato e poi come autonomo potere dei magistrati: actio nihil aliud est quam ius quod sibi debeatur iudicio persequendi – l’azione non è altro se non il diritto di perseguire in giudizio quanto ci spetta (Digesto, 44, 7, 51).

L’iniziativa di parte nella iurisdictio, una volta stabilito il diritto d’azione ed individuati i mezzi giuridici di difesa, si limitava alla sola promozione del processo. Le azioni potevano essere in ius od in factum ed altresì in rem od in personam. In relazione all’oggetto, si distinguevano poi actiones reipersecutoriae, poenales, mixtae. Rispetto alla loro natura e al modo di trattarle in giudizio, si distinguevano actiones stricti iuris, se l’arbiter giudicava in base allo stretto diritto, e bonae fidei, se prendendo in considerazione l’equitas l’arbiter decideva con piena libertà di giudizio.

In relazione all’origine, le azioni si dividevano in actiones civiles, se scaturenti dallo stretto diritto civile, ed actiones honorariae, se concesse di volta in volta dal pretore in via edittale per qualsiasi violazione di norme in materia di ius honorarium. Secondo la capacità di intentarle, le actiones si dividevano in private, se concesse solo a chi ne aveva interesse, e pubbliche, se attivate per questioni generali da qualunque cittadino (cfr. passim le relative voci).

Tra le principali figure di azioni previste si ricordano: actio contra publicanum – azione contro l’appaltatore delle imposte; actio contra nautas, caupones, stabularios – azione contro il comandante dell’imbarcazione, il titolare di una stalla; actio arborum furtim caesarum – azione per il taglio furtivo di alberi; actio auctoritatis – azione per la garanzia del venditore in caso di rivendica di terzi; actio calumniae – azione temeraria (azione emulativa); actio Calvisiana – azione calvisana (a tutela dei diritti ereditari del patrono sui beni del liberto in caso di successione ab intestato); actio commodati – azione di comodato (per la restituzione della cosa); actio commodati contraria – azione di comodato contraria (azione del comodatario verso il comodante); actio commodati directa – azione diretta di comodato (azione del comodante verso il comodatario); actio communi dividundo – azione per la divisione di una comunione; actio conducti – azione del conduttore verso il locante; actio confessoria – azione confessoria; actio damni infecti – azione di danno temuto; actio de aestimato – azione a tutela del contratto estimatorio; actio de constituta pecunia – azione per la restituzione di una somma (in caso di mancato adempimento); actio de deiectis et effusis – azione di danno per getto o versamento di cose; actio de dolo – azione per danno doloso o fraudolento; actio de dote – azione per la restituzione della dote; actio de effusis et deiectis – azione per il getto o versamento (di cose dannose); actio de in rem verso – azione contro il padre od il padrone in relazione ad atti del figlio o dello schiavo; actio de liberis agnoscendis et alendis – azione per il reciproco mantenimento tra parenti in linea retta; actio de modo agri – azione per ottenere che venga venduta l’estensione del fondo garantita; actio de pastu (pecoris) – azione di pascolo abusivo (di pecore); actio de pauperie – azione di risarcimento per danni arrecati da animali; actio de peculio – azione sul patrimonio peculiare; actio de pecunia constituta – azione per l’adempimento della promessa di un terzo di pagare; actio de posito vel suspenso – azione per danni da cosa appoggiata o sospesa; actio de sepulchro violato – azione per violazione del sepolcro; actio de servo corrupto – azione per la corruzione dello schiavo (aiuto accordato allo schiavo contro gli interessi del padrone); actio de tigno iuncto – azione per utilizzo di materiale edilizio altrui; actio depensi – azione per il recupero di quanto speso; actio depositi – azione per la riconsegna della cosa in deposito; actio doli – azione per comportamento doloso o fraudolento; actio emphiteuticaria – azione enfiteutica (promossa dall’enfiteuta contro i terzi o il proprietario); actio empti – azione dell’acquirente (per consegna del bene o per risarcimento danni); actio ex interdicto – azione per il mancato rispetto di un interdetto pretorile; actio ex stipulatu – azione per inosservanza di una stipulatio; actio ex testamento – azione del legatario contro l’erede (per ottenere il legato); actio exercitoria – azione contro l’armatore (per obbligazioni contratte dal capitano della nave); actio fabiana – azione Fabiana (a tutela dei diritti ereditari del patrono sui beni del liberto che ha lasciato un testamento); actio familiae erciscundae – azione per la divisione dell’eredità; actio famosa – azione contro una persone che, in caso di condanna, comporta una diminuzione del suo onore; actio fiduciae – azione per riavere il bene (dato come garanzia fiduciaria); actio finium regundorum – azione di regolamento di confini; actio funeraria – azione per il rimborso delle spese funerarie; actio furti – azione per furto (contro il ladro); actio furti concepti – azione per furto accertato (a seguito di perquisizione); actio furti prohibiti – azione per furto contro il ladro che rifiuta la perquisizione (della propria casa); actio honoraria – azione basata sul diritto onorario del pretore; actio hypothecaria – azione ipotecaria; actio in factum – azione in fatto (concessa dal pretore in mancanza di azioni in diritto); actio in personam – azione personale; actio in rem – azione reale; actio iniuriarum aestimatoria – azione di risarcimento per iniuria; actio institoria – azione institoria; actio institutoria – azione del creditore verso il terzo; actio interrogatoria – azione interrogatoria (affinché il chiamato dichiari se accetta l’eredità); actio iudicati – azione di cosa giudicata (per ottenere l’osservanza del giudicato); actio legis Aquiliae – azione per responsabilità aquiliana; actio libera in causa – azione libera nella causa; actio locati – azione del locatore; actio male iudicati – azione di risarcimento contro il giudice; actio mandati – azione da mandato (da parte del mandante); actio mandati contraria – azione da mandato contraria (da parte del mandatario verso il mandante); actio mandati directa – azione da mandato diretta (da parte del mandante verso il mandatario); actio metus – azione di annullamento per violenza; actio mixta – azione mista (per ottenere sia un risarcimento sia la condanna dell’avversario); actio momentaria – azione di spoglio temporanea; actio negatoria servitutis – azione negatoria dells servitù; actio negotiorum gestorum – azione di gestione di affari per conto altrui; actio negotiorum gestorum contraria – azione di gestione di affari contraria (del gestore contro il vero interessato); actio negotiorum gestorum directa – azione di gestione di affari diretta (da parte del titolare contro il gestore); actio noxalis – azione nossale (contro il pater familias o il dominus per danni cagionati dai sottoposti o dagli animali); actio Pauliana – azione pauliana; actio perpetua – azione perpetua (senza scadenza); actio pegneraticia – azione pignoratizia (per la restituzione del pegno); actio poenalis – azione penale (per ottenere la condanna ad una pena); actio popularis – azione popolare; actio praeiudicialis – azione pregiudiziale; actio praescriptis verbis – azione per ottenere la dovuta controprestazione (da particolari obbligazioni); actio Publiciana – azione publiciana (a tutela del possesso di buona fede); actio quanti minoris -azione per la riduzione del prezzo; actio quasi negatoria – azione quasi negatoria (a tutela di interessi e beni); actio quod iussu – azione contro chi ha potestà su di un soggetto (per obbligazioni assunte da questo per suo incarico); actio rationibus distrahendis – azione del pupillo contro il tutore per distrazione di beni; actio recepticia – azione da receptum; actio redhibitoria – azione redibitoria;; actio rei uxoriae – azione della moglie per la restituzione della dote; actio rerum amotarum – azione per sottrazione di cose (ad opera della moglie e in danno del marito); actio Rutiliana – azione contro il bonorum emptor (per debito del debitore decotto); actio sepulchri violati – azione per violazione del sepolcro; actio Serviana – azione serviana (contro il bonorum emptor per debiti del debitore decotto e defunto); actio Serviana (pigneraticia) – azione serviana (a tutela del locatore di fondi rustici e di creditori ipotecari per conservare la loro garanzia); actio spolii – azione di spoglio (a tutela del possesso); actio superficiaria – azione a tutela del diritto di superficie; actio temporalis – azione limitata nel tempo; actio tutelae – azione relativa alla tutela; actio vectigalis – azione a tutela del locatario di fondi vectigales (terreni pubblici dati in affitto in perpetuo); actio venditi – azione del venditore (per il pagamento del prezzo); agens sine actione a limine iudicii repellitur – chi agisce senza azione viene estromesso subito; etc.

Per inciso, giova ricordare che nella tradizione greco-latina actio era la quarta delle cinque grandi partizioni dell’arte retorica (insieme a inventio, dispositio, elocutio, memoria) e riguardava il modo di recitare il discorso con gesti e dizione appropriati ed altresì il modo di descrivere le figure con il fine di produrre effetti di sorpresa, con vivacità ed efficacia rappresentativa (cfr. anche le voci sub nn. 2559, 1322, 2317).

In chiave moderna, il termine actio è assunto in genere nel significato specifico di azione intentata in sede giudiziaria. Nel quadro attuale, il diritto d’azione, cioè il diritto di provocare l’esercizio della funzione giurisdizionale, spetta ad ogni singolo cittadino, ut sic (art. 24 Cost.), ed anche allo Stato in persona del Pubblico Ministero.

Nel campo civile, actio indica il diritto di chiedere processualmente la dichiarazione o il riconoscimento di un proprio diritto violato (azione civile). Nel campo penale, l’azione (penale) è volta ad accertare in giudizio l’esistenza di un reato, azione promossa ed esercitata dal pubblico ministero. Nel campo amministrativo, abbiamo invece l’azione popolare, esercitata (eccezionalmente in casi specifici previsti dalla legge) da un privato in sostituzione degli organi di un ente pubblico per far valere le ragioni dell’ente stesso.

 Invero, in diritto civile, esiste una pluralità di azioni, di cui le principali sono a tutela:

         – della persona, comprendenti la tutela dell’immagine (art. 10 c.c.), del nome e dello pseudonimo (artt. 7 – 9 c.c.), del diritto alla salute (art. 32 Cost., 2043 c.c.), oltre alle specifiche azioni di interdizione e di inabilitazione (art. 417 c.c., così come modificato dall’art. 5 della Legge 9 gennaio 2004 n. 6);

         – della famiglia, comprendenti le azioni di riconoscimento della paternità (art. 235 c.c.), dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale (art. 269 c.c.), legittimazione dei figli naturali (art. 284 c.c.), denegazione della filiazione legittima (artt. 233 – 234 c.c.), decadenza della potestà sui figli (art. 330 c.c.), revoca dell’adozione (artt. 305 – 307 c.c.), invalidità del matrimonio (artt. 117 – 127 c.c.), separazione personale dei coniugi (artt. 150 – 158 c.c.), divorzio (Legge n. 898/1970, così come integrata dalla Legge n. 74/1987);

         – delle successioni, comprendenti le azioni di indegnità (artt. 463 – 465 c.c.), separazione del patrimonio del defunto (art. 517 c.c.), petizione ereditaria (artt. 533 – 535 c.c.), riduzione (artt. 553 – 564 c.c.), nullità del testamento o delle disposizioni testamentarie (art. 606, 609, 596 – 599, 628, 631 – 632 c.c.), divisione ereditaria (artt. 763 – 767 c.c.);

         – della proprietà, comprendenti l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), negatoria (art. 949 c.c.), di regolamento dei confini (art. 950 c.c.), apposizione di termini (art. 951 c.c.);

         – dei diritti reali, comprendenti le azioni di devoluzione (art. 972 c.c.), di accertamento della servitù (art. 1079 c.c.), di scioglimento della comunione (art. 1111 c.c.), denunzia di nuova opera e di danno temuto (artt. 1171, 1172 c.c.);

         – del possesso, comprendenti le azioni di reintegrazione o spoglio (art. 1168 c.c.), manutenzione (art. 1170 c.c.);

         – delle obbligazioni, comprendenti le azioni di risarcimento danni per inadempienza contrattuale (art. 1223 c.c.), ripetizione dell’indebito (art. 2033 – 2040 c.c.), regresso tra condebitori (art. 1299 c.c.), generale di arricchimento (art. 2041 c.c.), risarcimento danni per fatto illecito (artt. 2043 – 2059 c.c.), revocatoria (art. 2901 c.c.), surrogatoria (art. 2900 c.c.), sequestro conservativo (art. 2905 c.c.), esecuzione forzata per consegna o rilascio (art. 2930 c.c., art. 605 e segg. c.p.c.), esecuzione degli obblighi di fare (art. 2931 c.c., art. 612 e segg. c.p.c.), esecuzione forzata degli obblighi di non fare (art. 2933 c.c., art. 612 e segg. c.p.c.), esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto (art. 2932 c.c.);

         – del contratto, comprendenti le azioni di nullità (artt. 1418 – 1422 c.c.), annullamento (artt. 1441 – 1446 c.c.), risoluzione per inadempimento (artt. 1453 – 1462 c.c.), risoluzione per eccessiva onerosità (artt. 1467 – 1469 c.c.), risoluzione per impossibilità sopravvenuta (artt. 1463 – 1466 c.c.), rescissione (artt. 763 – 767, 1447, 1452 c.c.), simulazione (artt. 1414 – 1417 c.c.).

In diritto processuale civile, si distinguono varie figure di azioni: di cognizione (che possono essere di accertamento, di condanna, costitutive), esecutive, cautelari.

 In diritto penale, abbiamo: l’azione penale (art. 112 Cost., artt. 50, 405 c.p.p., così come integrato con l’art. 3 della Legge 20 febbraio 2006 n. 46) esercitata dal P.M. al fine di perseguire i reati di cui sia venuto a conoscenza per ragioni d’ufficio; l’azione civile nel processo penale, esercitata dal privato attraverso la costituzione di parte civile.

  1. ACTIO AD EXEMPLUM – Azione imitativa (ad imitazione di altra). Tipica azione del processo formulare romano, così definita perché seguiva la falsariga di una fattispecie già definita e codificata, allorquando il caso concreto non fosse riconducibile ad alcuna specifica figura prevista dall’ordinamento dell’epoca.
  1. ACTIO AD EXHIBENDUM – Azione per esibire, azione esibitoria. Nel processo civile romano era così definita l’azione diretta ad ottenere la presentazione di una cosa ed era accordata alla parte che rivendicava la proprietà di una cosa mobile e chiedeva (al convenuto) di esibire la cosa contestata e/o la cosa ad essa accessoria.

L’azione era esperibile prima dell’azione principale da chi intendeva far valere un’azione reale contro chiunque abbia, in qualità di possessore o detentore, la possibilità di esibire la cosa ed altresì contro chi dolosamente si sia messo in condizione di non poterla più esibire. In diritto giustinianeo, la facoltà di attivare l’actio ad exhibendum venne estesa a chiunque vi abbia interesse: ad exhibendum possunt agere omnes, quorum interest – l’azione per ottenere l’esibizione spetta a tutti coloro che vi abbiano un qualche interesse.

 A seguito dell’esibizione in giudizio della cosa, l’attore poteva chiedere di ottenere il possesso della medesima o, quanto meno, aveva la possibilità di esperire l’azione reale (ad es., un’ipotesi di actio ad exhibendum era quella diretta ad ottenere la separazione della cosa accessoria dalla cosa principale).

Nel nostro contesto, si suole indicare come actio ad exhibendum l’ordine di esibizione rivolto dal giudice istruttore alla parte o al terzo. Si identifica nell’azione prevista dall’art. 210 del c.p.c. in virtù della quale, su istanza di parte, può venire chiesta l’esibizione di documenti o di cose concernenti una controversia in corso. Il giudice istruttore, prima di ordinare l’esibizione, può disporre che il terzo sia citato in giudizio.

  1. ACTIO AD SUPPLENDAM LEGITIMAM – Azione di reintegro della legittima. Speciale azione introdotta nel periodo del principato in favore dell’erede a cui fosse pervenuta una quota ereditaria inferiore rispetto a quella spettantegli. L’azione in questione, detta anche actio ad integrandam (o implendam) legitimam, mirava appunto a reintegrare la quota dovuta.

Oltre che avverso il testamento, l’azione de qua era esperibile anche avverso le donazioni e le costituzioni di dote che superassero la pars legittima (1/4 del patrimonio complessivo).

Nel quadro attuale, gli artt. 533 e segg. prevedono la possibilità di agire in giudizio per ottenere la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della legittima degli eredi legittimari, dei loro eredi o aventi causa.

  1. ACTIO ADVERSUS IUDICEM QUI LITEM SUAM FECERIT – Azione avverso il giudice che fece sua la lite. Introdotta dal diritto pretorio contro il giudice che si era appropriato della res controversa oggetto di giudizio, tale figura di azione venne poi estesa contro il giudice che avesse un interesse personale nella lite o che comunque avesse mal giudicato.

In età postclassica, si consentiva la proposizione di un’azione adversus iudicem anche quando lo stesso avesse emesso una sentenza non imparziale o palesemente ingiusta, in buona o in mala fede: iudex tunc litem suam facere intellegitur, cum dolo malo in fraudem legis sententiam dixerit, ut veram aestimationem litis praestare cogatur (Giustiniano, Digesto, 5, 1, 15, 1).

Una parallela azione concessa dal pretore era l’actio adversus mensorem qui falsum modum dixerit, contro l’agrimensore (misuratore dei terreni) che, in qualità di arbitro in una controversia di confini, avesse dolosamente falsificato le misure.

Rapportata al nostro contesto, riflette l’azione per la responsabilità del magistrato, ex artt. 1 e segg. Legge 13 aprile 1988 n. 117 (cfr. anche la voce sub n. 774). In procedura civile e penale, si dice dell’azione di ricusazione del giudice che abbia un suo interesse personale in causa (art. 52 c.p.c. e art. 37 c.p.p.).

  1. ACTIO AESTIMATORIA – Azione estimatoria (azione per la riduzione del prezzo). Figura di azione di età classica, conosciuta anche con altro nomen iuris, quello di actio quanti minoris, attivabile in presenza di vitia rerum – difetti della cosa (occulti o meno) oggetto di compravendita nei pubblici mercati (originariamente, riguardava soprattutto le res se moventes – cose che si muovono, vale a dire gli schiavi e gli animali), stante l’obbligo del venditore di denunciarli a priori. Nella tradizione romanistica prevaleva l’orientamento generale secondo cui il venditore aveva l’obbligo di denunciare a priori i vizi della cosa: venditorem dicere vitia oportet – occorre che il venditore dica quali sono i vizi della cosa venduta.

Nel periodo del principato (e quindi a partire dal I sec. a. C.) il pretore estese l’actio aestimatoria (precedentemente applicata soprattutto alle compravendite di schiavi ed animali) a tutti i casi di compravendita. Se entro sei mesi veniva dimostrato che il venditore era a conoscenza dei vizi doveva risarcire il danno, mentre se risultava che non era a conoscenza dei vizi era tenuto alla restituzione dell’intera somma od alla riduzione del prezzo.

Similmente, nel quadro attuale, tra le obbligazioni principali del venditore figura anche quella di garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa (art. 1476 c.c.). L’actio aestimatoria compendia la fattispecie raffigurata nell’art. 1492 c.c. che, unitamente all’azione redibitoria, ha lo scopo di tutelare il compratore per i vizi della cosa venduta. Con tale azione si mira ad ottenere la riduzione del prezzo, in rapporto con la minore utilità offerta dalla cosa, ed è esperibile, in alternativa all’azione redibitoria, quando gli usi escludono la risoluzione del contratto. È fatto salvo in ogni caso il diritto al risarcimento del danno, a meno che il venditore provi di avere ignorato i vizi della cosa (art. 1494 c.c.). La scelta tra azione redibitoria ed estimatoria è irrevocabile se fatta con domanda giudiziale: electa una via non datur recursus ad alteram.

  1. ACTIO AUCTORITATIS – Azione di garanzia, azione per ottenere la garanzia per l’evizione, azione per la garanzia del venditore in caso di rivendica di terzi. Figura di azione introdotta dal diritto pretorio, esperibile dall’acquirente di una res mancipi a seguito di giudizio instaurato da un terzo rivendicante la proprietà della cosa alienata. In caso di evizione, l’acquirente, mediante l’actio auctoritatis, poteva ottenere l’assistenza dell’alienante nel giudizio intentato dal terzo e il pagamento del doppio del prezzo versato.

Nel quadro attuale, l’actio auctoritatis identifica le varie figure di garanzia per l’evizione, contemplate dagli artt. 1483 – 1488 c.c. (cfr. la voce sub n. 1570).

  1. ACTIO BONAE FIDEI – Azione di buona fede. Il regime dei rapporti di buona fede, tipico della tradizione romanistica, ha influenzato tutti i tempi ed assunto significativa rilevanza nei riguardi di molti istituti del diritto romano.

Nell’ambito del diritto processuale, numerose erano le c. d. actiones bonae fidei (in contrapposizione alle actiones stricti iuris), la cui formula, contenente la clausola ex fide bona, dava al giudice il compito di determinare le prestazioni del convenuto secondo un principio appunto di buona fede, disponendo al riguardo di un ampio potere discrezionale, fino a consentirgli di giudicare prescindendo anche da una rigorosa applicazione dei precetti normativi.

Nel diritto romano, il concetto di buona fede nei procedimenti giudiziali ha assunto peraltro significati molto ampi, estendendosi financo ad abbracciare il principio di equità. Le actiones bonae fidei riguardavano, ad es., le figure di: emptio-venditio, locatio-conductio, negotiorum gestorum, mandatum, commodatum, pro socio e molte altre ancora.

  1. ACTIO CALUMNIAE – Azione di calunnia (azione emulativa). Peculiare figura di azione di età classica concessa dal pretore contro colui che avesse intentato un giudizio al solo scopo di nuocere a terzi.

Simile azione non trova oggi puntuale riscontro nel nostro sistema, riflettendo una specificità propria del diritto processuale romano, ma tuttavia il nomen iuris è usato per identificare la c. d. azione emulativa ed altresì la c. d. azione temeraria.

  1. ACTIO CIVILIS – Azione (basata sul diritto) civile. Fin dalla tradizione formatasi a seguito della Lex XII Tabularum (ca. 450 a. C.), si qualificava come tale qualsiasi tipo di azione fondata sul ius civile, attivabile senza un apposito atto permissivo del pretore, atto reso invece necessario per ogni corrispondente actio honoraria.

Con il venire meno in epoca imperiale della tradizionale distinzione tra ius civile e ius honorario, perse rilevanza anche la distinzione tra l’una e l’altra figura di azione.

  1. ACTIO COMODATI – Azione di comodato. Particolare figura di azione di età classica spettante al comodante nei confronti del comodatario per ottenere da questi la restituzione della cosa data in comodato. In caso di prematura richiesta di restituzione della res da parte del comodante, al comodatario spettava invece l’ actio contraria comodati.

Nel quadro attuale, in una sorta di continuità con la tradizione romanistica, si suole convenzionalmente qualificare come:

 – actio comodati directa – azione di comodato diretta, quando viene esperita dal comodante avverso il comodatario od i suoi eredi che non adempiono le loro obbligazioni, ex artt. 1809, 1810, 1811 c.c. (si designa come diretta perché vede come attore il comodante e come convenuto il comodatario);

 – actio comodati contraria – azione di comodato contraria, quando viene esperita dal comodatario avverso il comodante, ex artt. 1808, 1812 c.c. (si designa come contraria perché eleva il comodatario ad attore e il comodante a convenuto).

  1. ACTIO COMMUNI DIVIDUNDO – Azione per la divisione della comunione, azione per sciogliere la comunione. Gli storici latini riferiscono che, fin da età classica, l’acquisto ereditario da parte di più delati, in base alle rispettive quote, originava una situazione di coeredità. Le cose ereditarie determinavano una situazione di comunione ereditaria pro indiviso, mentre invece i debiti e i crediti ereditari si dividevano ipso iure tra i coeredi. Alla comunione ereditaria pro indiviso si poneva fine attraverso la divisione attuata di comune accordo tra i coeredi e, in caso di mancato accordo, attraverso la divisione giudiziale.

L’actio communi dividundo era dunque l’azione esperibile da uno o più dei coeredi (oltre che dal coerede legatario) contro gli altri coeredi, per chiedere al pretore la divisione giudiziale del patrimonio indiviso. Tale genere di azione, conosciuta anche come actio familiae erciscundae – azione per la divisione ereditaria, era concessa in via generale in caso di pluralità di bonorum possessores.

 Nel quadro attuale, in una sorta di continuità con la tradizione romanistica, identifica l’azione per ottenere la divisione della comunione e più in generale la facoltà di domandare lo scioglimento della comunione, quale fattispecie contemplata dagli artt. 1111 – 1116 c.c. e dagli artt. 784 – 791 c.p.c.

  1. ACTIO CONDUCTI – Azione del conduttore. Figura di azione di età classica intentata dal conduttore nei confronti del locatore per inadempienze di quest’ultimo ai propri obblighi contrattuali inerenti la locatio-conductio. L’actio conducti era una delle azioni rientranti nella facoltà del pretore di regolarsi ex bonae fidei (in contrapposizione alle actiones stricti iuris) e di determinare la prestazione del convenuto secondo un principio appunto di buona fede, postulante un ampio potere discrezionale, che gli consentiva di giudicare prescindendo dalla rigorosa applicazione dei precetti normativi.

 Nel nostro contesto, l’actio conducti si può identificare nell’azione concessa al conduttore in caso di inosservanza del contratto di locazione da parte del locatore.

  1. ACTIO CONFESSORIA – Azione confessoria. Figura di azione della codificazione giustinianea per designare la specifica actio civilis preordinata ad affermare l’esistenza di un diritto di servitù. Invero, i compilatori giustinianei hanno mutato solo il nomen iuris dell’ actio civilis, da vindicatio servitutis ad actio confessoria, prendendo lo spunto dal fatto che mirava a far confessare al convenuto l’esistenza della servitù. Era un mezzo processuale a tutela delle servitutes praediorum, spettante al dominus del fondo dominante contro il proprietario del fondo servente o chiunque altro impedisse l’esercizio della servitù.

In continuità con la tradizione romanistica, si suole ancora oggi definire come actio confessoria l’azione diretta a rivendicare la servitù, ex art. 1079 c.c., esercitata da chi pretende di avere un diritto reale su cosa altrui. In pratica si tratta dell’azione con cui il titolare della servitù dimostra l’esistenza del suo diritto e ne chiede il riconoscimento giudiziale o chiede di far cessare eventuali impedimenti o turbative dell’esercizio del diritto stesso. Inoltre, il titolare della servitù può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino, oltre il risarcimento dei danni. L’azione in questione è esercitata da chi pretende di avere un diritto reale su cosa altrui, contro il proprietario del fondo servente e contro chiunque contesti l’esercizio della servitù. La materia è regolata dalle disposizioni di cui agli artt. 1012-1079 c.c.

  1. ACTIO DAMNI INFECTI – Azione di danno temuto. La definizione della tradizione romanistica è la seguente: damnum infectum est damnum nondum factum, quod futurum veremur – il danno temuto è il danno non ancora accaduto ma che si teme avvenga (Gaio, Istituzioni). In presenza di simile eventualità il diritto romano consentiva una speciale azione detta appunto di danno temuto.

 Nel nostro contesto, in una sorta di continuità con la tradizione romanistica, la figura si identifica nell’azione per danno temuto, danno eventuale, di cui all’art. 1172 c.c. (cfr. la voce sub n. 1104).

  1. ACTIO DAMNUM INIURIA – Azione di danno ingiusto. Gli storici del diritto affermano che il delitto di danneggiamento venne codificato solo con la Lex Aquilia del 287 a. C., che individuò tre distinte ipotesi: ipotesi di uccisione di uno schiavo altrui o di un pecudes (animale da armento o gregge) altrui, ipotesi di acceptilatio compiuta dall’adstipulator in frode dello stipulante, ipotesi residuale di danni arrecati a cose altrui (cfr. la voce sub n. 1105).

Per tali ipotesi di damnum iniuria la Lex Aquilia ha previsto apposita actio: damni iniuriae actio constituitur per legem Aquiliam – l’azione di danno ingiusto è stata introdotta dalla Lex Aquilia (Gaio, Istituzioni), riguardante ogni genere di danno causato da fatto illecito, danno causato ingiustamente, danno causato con un atto ingiusto.

Non era peraltro accordabile l’azione di danno ingiusto una volta intervenuta la compravendita: enim sine dolo et culpa venditoris accidit, in eo venditor securus est – per tutto ciò che succede senza dolo e colpa del venditore, il venditore è al sicuro (Gaio, Istituzioni).

 Nel nostro contesto, l’actio damnum iniuria identifica l’azione di risarcimento per danno ingiusto, di cui agli artt. 2043 – 2059 c.c.

  1. ACTIO DE ALBO CORRUPTO – Azione per alterazione dell’albo. Il diritto romano ha conosciuto varie specie di azioni popolari, per lo più concesse dai pretori, a tutela dell’ordine pubblico, delle pubbliche cose o della pubblica fede, tra cui figura anche l’azione de albo corrupto, accordata in caso di alterazione dell’albo destinato alla pubblicazione delle disposizioni pretorili. L’azione era concessa nei confronti di chi aveva alterato, strappato o imbrattato le pubblicazioni dell’albo pretorio.
  1. ACTIO DE DOLO – Azione di dolo. Figura di azione del ius civile, di carattere infamante, ideata da Aquilio Gallo (insigne giurista del I sec. a. C.) e riguardante il danno fraudolento. Era attivabile dal deceptus, cioè dal contraente rimasto vittima di comportamento fraudolento della controparte, contro il deceptor, cioè il truffatore che, con raggiri e artifizi, avesse tratto in inganno la controparte. In età postclassica l’actio de dolo venne ad assumere la nuova denominazione di actio doli ed estesa, oltre che al danno fraudolento, anche al danno doloso.

In tema di errore, violenza, dolo, cioè di vizi del consenso, sono significative le massime: errantis consensus nullus est – il consenso prestato da chi sia in errore è nullo; nulla voluntas errantis est – la volontà (contrattuale) manifestata da chi sia in errore è nulla; error litigatorum non habet consensum – l’errore in cui si trovano le parti in causa non consente un loro libero consenso; vi factum id videtur esse, qua de re quis cum prohibetur fecit – si ritiene compiuto con violenza ciò che qualcuno abbia fatto nonostante gli fosse proibito; nihil consensui tam contrarium est quam vis atque metus – nulla è così contrario a una libera volizione concorde quanto la violenza e il timore.

Nel quadro attuale, premesso che i vizi del consenso sono riguardati dalle disposizioni di cui agli artt. 1427 – 1440 c.c., si distingue tra:

actio doli generalis – azione di dolo generale, azione con cui l’autore del dolo viene chiamato a risarcire i danni prodotti a tale titolo, id est l’azione diretta ad ottenere il risarcimento di un danno ingiusto causato dal comportamento sleale della parte con cui si tratta; la fattispecie è riguardata dal combinato disposto dell’art. 1175 c.c., in base al quale il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza, e dell’art. 2043 c.c., in base al quale qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno;

 – actio doli specialis – azione di dolo speciale, azione concessa a colui che è caduto in errore per effetto di un comportamento illecito altrui realizzatosi nella forma del dolo; è finalizzata all’annullamento del negozio giuridico concluso (primo comma, art. 1439 c.c.).

  1. ACTIO DE EFFUSIS ET DEIECTIS – Azione per il gettito o versamento di cose. Nella tradizione romanistica era l’azione intentata contro il dominus della casa, da cui era avvenuto il lancio di oggetti di qualsiasi genere, cagionando danni ai passanti. Trattandosi di un caso di responsabilità oggettiva, rispondeva direttamente il dominus della casa, non in quanto autore del gesto ma ut sic – in quanto tale, salvo che non venisse identificato il vero responsabile, contro cui si procedeva direttamente. Un caso similare di responsabilità oggettiva era rappresentato dalla caduta di un qualsiasi oggetto dai balconi di una casa, cagionando danni ai passanti, per il cui fatto era concessa azione contro il dominus della casa, azione denominata de posito vel suspenso – per cosa appoggiata o sospesa, salvo che non venisse identificato il vero responsabile, contro cui si procedeva direttamente.

Nel sistema giustinianeo, l’actio de effusis et deiectis venne concessa direttamente contro l’habitator di una casa, dalla quale sia stato gettato o versato alcunché sulla via o sul luogo pubblico sottostante provocando danni a cose o persone.

 Ancora oggi, il presupposto della responsabilità oggettiva si fonda sull’esistenza di un nesso di causalità e non sul dolo o la colpa (es. responsabilità dei patroni per fatti illeciti dei domestici, art. 2049 c.c.).

  1. ACTIO DE IN REM VERSO – Azione per il rivolgimento dell’utile (del ricavo). Figura di azione di età classica appartenente alla categoria delle actiones adiecticiae qualitatis – azioni di tipo aggiuntivo (Gaio, Istituzioni, IV, 74). Nella tradizione romanistica, corrispondentemente al principio della responsabilità oggettiva, il profitto di un negozio giuridico concluso dal filius o dal servus era interamente destinato al pater familias (o rispettivamente al dominus), che rispondeva anche per l’arricchimento effettivamente conseguito verso chi avesse contratto l’obbligazione con il proprio filius o con il proprio servus. Perciò si parlava propriamente di: actio de eo quod in rem domini versum est – azione relativa a ciò che è stato rivolto a vantaggio del padrone.

Trattasi di figura di azione processuale introdotta dal diritto pretorio in aiuto a colui che, contrattando con persona incapace (servo o figlio di famiglia), avesse subito un danno; il pretore consentiva di agire in solido contro il pater familias, da cui dipendeva l’incapace, nella misura dell’arricchimento da questi conseguito.

 Nel nostro contesto, identifica il principio secondo cui un pagamento fatto ad un incapace, di per sé improduttivo di effetti, libera il debitore se provi che la somma pagata era rivolta al vantaggio dell’incapace.

 In chiave moderna, l’actio de in rem verso è intesa anche nel senso di ingiustificato arricchimento, in relazione alle massime: melius est favere repetitioni quam adventicio lucro – è meglio favorire una richiesta di restituzione piuttosto che dar luogo ad un arricchimento ingiustificato; aequum est neminem cum alterius detrimento et iniuria locupletiorem fieri – è giusto che nessuno diventi più ricco attraverso un danno altrui e un’ingiustizia; nemo locupletari potest cum aliena iactura – nessuno può arricchirsi con ingiusto pregiudizio per un altro; ea quae per errorem omissa vel soluta sunt, condici possunt – le cose dimenticate o pagate per errore possono essere rivendicate.

Nel quadro attuale, si dice dell’azione per il rivolgimento dell’utile, ossia dell’azione generale di ingiustificato arricchimento, contemplata dalle disposizioni di cui all’art. 2041 c.c.: «chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale». La ratio della norma è tesa ad evitare che una persona, senza giusta causa, aumenti il proprio patrimonio con pregiudizio di altri, nemo locupletari potest cum aliena iactura. In base a detta disciplina giuridica, un soggetto che abbia subito la diminuzione del proprio patrimonio ad opera di un terzo, in assenza di valido rapporto, può richiedere a chiunque si sia arricchito a suo danno di essere indennizzato, promuovendo l’actio de in rem verso. Gli elementi dell’azione de qua vengono ad essere rappresentati dall’arricchimento di una persona con correlativa diminuzione patrimoniale di un’altra: si avrà la mancanza di causa giustificativa dell’arricchimento da una parte e la perdita dall’altra.

Al riguardo, occorre pero tenere presente che l’azione di arricchimento ha carattere sussidiario o residuale, in quanto, in base all’art. 2042 c.c., non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito.

La suddetta azione, secondo la recente giurisprudenza, è eccezionalmente da ritenersi ammissibile anche nei confronti della P. A., ma solo nel caso in cui questa abbia riconosciuto l’utilità dell’opera o dell’attività, ovvero sia stata riconosciuta utile la prestazione eseguita da un terzo a proprie spese.

  1. ACTIO DE PAUPERIE – Azione di risarcimento per danno (cagionato da animali), azione per il danno involontario. Il diritto romano consentiva una specifica azione per danno nei confronti del proprietario di animali che avessero danneggiato le culture o il pascolo altrui. Il responsabile era tenuto al risarcimento del danno arrecato, salvo che non preferisse indennizzare il dominus del fondo consegnando un certo numero di capi di bestiame: qui occasionem dat damni, damnum dedisse videtur – chi ha reso possibile un danno si considera averlo cagionato.

Siffatta azione (detta anche de pastu pecoris), attivabile dal dominus, era diretta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti per effetto di pascolo abusivo di bestiame altrui sul proprio fondo, danni arrecati dalle res se moventes – cose che si muovono, (vale a dire dagli animali).

Nel quadro attuale, sfruttando il nomen del tipico istituto del diritto romano, si suole identificare la fattispecie nell’art. 2052 c.c., che delinea la responsabilità per danni cagionati da animali.

  1. ACTIO DE PECULIO – Azione di peculio. Figura di azione di età classica appartenente alla categoria delle actiones adiecticiae qualitatis – azioni di tipo aggiuntivo (Gaio, Istituzioni, IV, 747.

Il pater familias o il dominus che affidavano in amministrazione o in godimento, rispettivamente al proprio filius o al proprio servus, un determinato peculio per l’esercizio della loro attività, erano chiamati a risponderne in proprio ed in solido anche di fronte a terzi. L’azione de peculio era esperibile a seguito di negozio giuridico concluso dal filius o dal servus, senza il consenso del pater familias o del dominus, negozio che si considerava in ogni caso imputato rispettivamente al pater familias o al dominus.

 Sin dal II secolo a. C. si è avvertita peraltro l’esigenza di far ricadere in qualche misura direttamente sul soggetto all’altrui potestà, ovvero sui iuris, la responsabilità derivante dal negozio obbligatorio da lui contratto. Il pretore venne infatti a concedere apposita azione edittale, actio de peculio et de in rem verso, contro l’avente potestà per qualsiasi negozio obbligatorio concluso dal soggetto a potestà, sul presupposto dell’esistenza di un peculio o dell’arricchimento derivatogli dalla conclusione del negozio medesimo, ovviamente nei limiti dell’ammontare del peculio e dell’arricchimento.

  1. ACTIO DEPENSI – Azione per recupero spese. Nel processo per formulas del diritto romano, così come in quello per legis actiones, simile azione era consentita ai garanti contro il debitore che, entro il tempo assegnato, non avesse onorato il suo debito verso i garanti medesimi.

Quale specificità propria di un preciso momento storico, coincidente con l’età classica, l’istituto nelle epoche successive ha trovato riscontro in altre forme e con altre configurazioni.

  1. ACTIO DE RECEPTO – Azione di promessa garanzia. Nel sistema dell’ordinamento romano, allorché un’obbligazione, un patto, un incarico, fosse stato comunemente accettato, receptus, dalla controparte interessata, il diritto pretorio accordava poi speciale tutela.

Nel nostro contesto, si suole indicare come actio de recepto ogni fattispecie di azione in tema di garanzie raffigurata dal vigente ordinamento positivo.

  1. ACTIO DE TIGNO IUNCTO – Azione relativa a materiale edilizio congiunto, azione per i materiali incorporati. Figura di azione concessa al proprietario di materiali edilizi allorquando gli stessi venivano utilizzati da chi intendeva edificare a confine ma era così definita anche l’azione per il recupero di materiale edilizio in caso di furtiva sottrazione per fini edificatori.

Fin dall’origine, il ius gentium – diritto delle genti concedeva l’actio de tigno iuncto a chi costruiva un edificio su suolo proprio ma a confine con altro od utilizzando materiali altrui, onde riavere questi ultimi o il corrispondente prezzo.

Secondo un principio pacifico nel diritto romano, chi edificava su suolo proprio rimaneva proprietario della costruzione, benché avesse utilizzato materiali altrui, trovando applicazione la regola: omne quod inaedificatur solo cedit – tutto ciò che si edifica accede al suolo. Poiché tuttavia i materiali utilizzati erano pur sempre di proprietà altrui, si consentiva apposita azione, actio de tigno iuncto, per il recupero del prezzo di questi ultimi.

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