Prefazione
Il campo di indagine su cui spazia il tema qui affrontato è contrassegnato da una infinità di scuole di pensiero, oltre che da discordanti dottrine filosofiche, nell’ambito delle quali non sono rinvenibili solide certezze a cui fare riferimento.
Tuttavia, giova tenere presente che, secondo l’idea socratica, lo sforzo e il fascino del filosofo non è quello di fornire un concetto fondativo e autoritario ma quello di produrre utili argomentazioni sul buon ordine della polis, su come vivere bene, sulla giustizia sociale, etc., argomentazioni che sono pur sempre soggettive e non certo oggettive.
Sulla scia dell’idea socratica, il pensiero filosofico e la scienza non hanno mai cessato di prodigarsi in ogni genere di ricerche e di approfondimenti, nel tentativo di capire cosa sia la coscienza, la sua essenza e le sue possibilità creative, cercando di delinearne le caratteristiche salienti, senza mai pervenire ad una esauriente definizione della stessa anche perché, per sua natura, si sottrae in larga parte alla scienza naturale.
Il presente testo non ha certo pretese di trattato morale, sostanziandosi in un semplice approccio di indole spiccatamente pratico-conoscitivo, i cui contenuti possono tuttavia offrire un contributo informativo e suscitare qualche interesse per quanti desiderino conoscere l’universo dell’interiorità. Si affrontano difatti appassionanti tematiche sulla natura e la forza della coscienza, che per secoli è stata confusa con la mente, con la psiche, con lo spirito, con l’anima, termini che nei lontani trascorsi venivano usati spesso come sinonimi. Si forniscono anche i primi rudimenti sul mistero della coscienza e sulle principali concezioni di essa, non senza esaltare la concezione cristiana e la palpitante attualità della morale cristiana.
I vari argomenti sono esposti in modo semplice, al fine di consentirne la comprensione alla generalità o quantomeno ad un vasto pubblico.
Nella Parte I si riportano alcune tematiche generali che hanno come filo conduttore la coscienza nei vari ambiti, sotto il profilo morale e psicologico, mentre nella Parte II si affrontano i temi della non coscienza, nelle sue sfaccettature più conosciute dell’anticoscienza, del disconoscimento della coscienza e della negazione della coscienza.
INDICE DELLE VOCI
PARTE I
La coscienza
Cap. I
Origini e specificità della coscienza
Specificità della coscienza
Possibili forme di crisi
Concezioni filosofiche del comportamentismo e del funzionalismo
Scuole di concezione materialistica e spiritualistica
La coscienza nella prospettiva della psicologia
Fenomeno dell’adulterazione della coscienza
Cap. II
La coscienza nella filosofia antica
Cap. III
La coscienza nella cultura cristiana
Elementi distintivi della cultura e della coscienza cristiana
Cap. IV
La coscienza nella cultura Patristica
Cap. V
La coscienza nella cultura Scolastica
Sviluppi di pensiero in tema di synderesis e di coscienza
Cap. VI
La coscienza nella cultura post Scolastica
Il Rinascimento, l’Illuminismo, il Romanticismo, il Positivismo
Cap. VII
La coscienza nella cultura moderna
Dottrine anti-coscienzialiste e coscienzialiste
Teorizzazioni filosofiche e usi comuni del termine
Cap. VIII
La coscienza nella cultura contemporanea
Cattolici impegnati in politica
Il tema della bioetica
Cap. IX
La coscienza morale e la coscienza psicologica
La coscienza morale
La coscienza psicologica
La coscienza in senso etico, cognitivo, intenzionale
Cap. X
La coscienza nello sviluppo educativo
Educazione in età prescolare
Educazione e istruzione in età scolare
La formazione della coscienza morale
Cap. XI
La coscienza nel processo psichico
Cap. XII
La coscienza individuale
Peculiarità della coscienza
Ruolo guida della coscienza, disfunzioni della coscienza
Il senso di colpa
Cap. XIII
La coscienza nel mondo della scienza
Le prime correnti filosofiche del materialismo
L’arresto della cultura materialista
Cap. XIV
La coscienza nel mondo della politica
Scuole di pensiero che riconoscono o negano la coscienza
Disaccordo su tutto ma fanno eccezione i privilegi
L’oscuro mondo del diavolo
La posizione dei cristiani impegnati in politica
Cap. XV
La coscienza sociale
Maturazione di una nuova coscienza sociale
Il fenomeno del «trasformismo politico»
Inottemperanza alle regole fondamentali
Cap. XVI
La coscienza della morte
Diverse visuali sull’idea della morte
Cap. XVII
Libertà di coscienza
La rilevanza della coscienza nell’ordinamento giuridico
La visuale del credente e del non credente
L’esercizio del diritto di libertà di coscienza
Cap. XVIII
L’obiezione di coscienza
Cenni storici
Riflessioni sull’obiezione di coscienza di mons. R. Martinelli
Cap. XIX
Crisi di coscienza
Soggetti incapaci di provare crisi di coscienza
Cap. XX
Il rimorso di coscienza
Stato di indigenza e rimorso di coscienza
Persone che provano e che non provano rimorso di coscienza
Cap. XXI
L’esame di coscienza serale
Finalità e svolgimento
Cap. XXII
Il coscienzialismo
Idee anticoscienzialiste
PARTE II
L’anticoscienza
Cap. I
Concetto di «non coscienza» e di anticoscienza
Idea di «non coscienza»
Idea di anticoscienza
Cap. II
Concetto di incoscienza
Temeraria esposizione ai pericoli
Cap. III
Le casualità dell’anticoscienza
Cap. IV
Forme di anticoscienza
L’influenza dei mezzi di informazione
Comportamenti anticoscienza in campo politico
Cap. V
Forme turpi di anticoscienza
Le principali forme di anticoscienza
Cap. VI
La non coscienza e l’anticoscienza in campo politico
La situazione nei regimi totalitari
La situazione nei regimi democratici
Le posizioni dei politici nei vari regimi
Comportamenti commissivi ed omissivi dei politici
Espressioni di volontà contro coscienza
Cap. VII
La negazione della coscienza nell’ideologia marxista
La coscienza nel quadro del M. d. P. C.
La dissacrazione dei valori universali nel M.d.P.C.
Utopie, ipocrisie e sfide contenute nel M.d.P.C.
Le principali dottrine anti-coscienzialiste
Tre culture inconciliabili: materialista, utilitarista e delle idealità
Cap. VIII
Il disconoscimento della coscienza in campo politico
Il progresso propugnato dai partiti progressisti
Premesse per la concordia interna e la giustizia sociale
Disconoscimento ab extra et ab intra della coscienza
Capitolo XII
La coscienza individuale
Va detto anzitutto che la coscienza individuale assurge a valore costituzionale e, come tale, gode di ampia tutela giuridica. Nella sentenza della Corte costituzionale 16-19 dicembre 1991 n. 467 si legge al riguardo: a livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico. In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima.
Di qui deriva che – quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) – la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana. Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza).
Tali concetti sono stati poi ribaditi in successivi pronunciamenti della Corte costituzionale, rispettivamente con sentenza 19-27 aprile 1993 n. 195 e con sentenza 4-5 maggio 1995 n. 149, da cui emerge l’assoluta prevalenza del principio di uguaglianza, ex art. 3 Cost., quando si ragiona, si legifera o si giudica su questioni attinenti la sfera della coscienza individuale. In particolare, al punto 2 di quest’ultima sentenza si legge: «la libertà di coscienza – specie se correlata all’espressione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 Cost.) ovvero, come nel caso, alla propria fede o credenza religiosa (art. 19 Cost.) – deve essere protetta».
Dal quadro giuridico sopra riportato emerge che «il diritto alla coscienza è un diritto fondamentale di ogni persona», diritto inalienabile che non può essere scalfito in alcun modo.
Ma la coscienza individuale, pur godendo dell’ampia tutela giuridica suindicata e pur derivando da una corretta educazione, non è però sufficiente a guidarci ed a districarci nella complessa vita moderna. Servono ulteriori importanti ingredienti per affrontare il non facile cammino della vita, in assenza dei quali non si potrà che provare una forte sensazione di smarrimento.
In primo luogo, è bene che ciascuno impari a comprendere il senso della vita e scoprire il perché vivere. Oggi, a differenza del passato, le persone sentono sempre più il bisogno di capire il senso della vita, bisogno che deriva dall’avvenuta elevazione del livello medio di cultura, dalle migliorate condizioni di vita in generale, ma anche da molte altre cause. E così, sono sempre più numerose le persone che avvertono il bisogno di guardare oltre la materialità della vita, che si sentono affascinate dalla spiritualità, che considerano la vita ridotta a ben poca cosa se non trova la matrice nella trascendenza.
In secondo luogo, è bene che ciascuno abbia un proprio obiettivo o progetto di vita, caratterizzato dall’universo dei valori tradizionali e da una convinta etica di vita.
Il tutto deve poi essere accompagnato da una adeguata dose di buonsenso, derivante dal carattere, dall’educazione ricevuta, dalle esperienze acquisite. I vari dizionari definiscono in vario modo il buonsenso: come capacità di giudicare e comportarsi con saggezza; come capacità istintiva di giudicare con equilibrio e comprensione; come capacità naturale di giudicare rettamente, soprattutto in vista di necessità pratiche; come capacità naturale dell’individuo di valutare e distinguere il logico dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno. L’esperienza e la quotidianità dimostrano che i singoli, soprattutto nei rapporti intersoggettivi, hanno scarso successo nella vita se non sono dotati di una sufficiente dose di buonsenso.
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Peculiarità della coscienza
Dopo queste premesse di ordine giuridico e pratico, viene spontaneo chiedersi: ma cos’è veramente la coscienza individuale, qual è il suo ruolo e come funziona nella realtà ?
San Tommaso d’Aquino (1225-1274) considera la coscienza come «l’applicazione di conoscenze oggettive, sia che si voglia intenderla nel significato di consapevolezza sia nel significato di sinderesi, ovvero di coscienza morale».
Nel pensiero di molti studiosi più vicini a noi, in particolare del filosofo francese Henri Louis Bergson (1859-1941), del filosofo austriaco Edmund Gustav Albrecht Husserl (1859-1938), del filosofo tedesco Karl Theodor Jaspers (1883-1969), del teologo svizzero Karl Barth (1886-1968) e del filosofo francese Jean-Paul Charles Aymard Sartre 1905-1980), la coscienza assume un carattere «quasi mistico» ed è il punto di partenza e il punto di arrivo nell’auto-auscultazione interiore. Il grande teologo svizzero Karl Barth (1886-1968), soggiunge acutamente che la coscienza è «la perfetta interprete del vero senso della vita».
Affermate e consolidate scuole di pensiero cristiano concordano per lo più sulla seguente esplicitazione:
La coscienza è qualcosa di innato, è un sentimento morale che ci fa sentire bene o male a seconda di ciò che abbiamo fatto. È una voce interiore che ci dice: «hai fatto bene» o «non hai fatto bene». È una forza morale interiore che ci fa sentire bene quando facciamo cose coerenti con i nostri principi e con il nostro credo e che ci fa sentire male quando andiamo contro di essi, procurandoci un turbamento interiore, un senso di colpa. La coscienza funziona ed opera conformemente a ciò che giudichiamo giusto o sbagliato a priori, secondo i principi e il credo personale.
Da tale pensiero cristiano si perviene agevolmente alla conclusione che la coscienza può essere definita la «legge delle leggi», a cui deve conformarsi la condotta della persona e le scelte che compie.
La più alta e solenne pronuncia sulla coscienza proviene dal Concilio Vaticano II: «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (Costituzione Gaudium et Spes, n. 16, del 7 dicembre 1965).
Si deve tuttavia tenere presente che la coscienza non è una prerogativa del cristiano ma è un elemento costitutivo e distintivo degli esseri umani, siano essi credenti o non credenti. Tutti infatti sono portatori di valori e tutti sono indotti a discernere tra ciò che è morale e ciò che è immorale, in ragione della propria coscienza e dei propri valori, per cui se vogliamo indirizzarci verso una pacifica convivenza sociale si rende doveroso un continuo dialogo e confronto tra le persone, in special modo tra credenti e non credenti.
Ed a tale proposito, il Concilio Vaticano II ricorda ai cristiani che non hanno il monopolio della conoscenza del bene e del male e quindi non devono sentirsi superiori a nessuno, precisando testualmente: «Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale» (Gaudium et spes, n. 16).
Ma, indipendentemente da come ognuno voglia inquadrare e definire la coscienza, deve porre attenzione perché se la stessa rimane inascoltata può essergli causa di sofferenza e disagio. Infatti, qualora i nostri gusti o i nostri desideri non coincidano con la coscienza ha inizio un vero e proprio conflitto interiore che si risolve solo facendo prevalere la seconda sui primi. Ed il superamento del conflitto interiore non è sempre facile perché sono gli stessi schemi e canoni di vita che possono portare un senso di sofferenza alla persona, a fortiori quando la stessa è chiamata ad agire in ambito pubblico, a fronte di esigenze politiche e di istanze che si delineano come socialmente vantaggiose ma si rivelano in contrasto con la propria coscienza.
Nelle situazioni precitate, la voce della coscienza si fa sentire tanto più forte quanto più forte è la voglia o la frenesia di ribellione e di trasgressione alla regola, ai propri valori, ai propri principi o al proprio credo. È così che nascono molti squilibri interiori, che creano afflizione e imbarazzo alla persona e non le consentono di trovare pace.
Oggi viviamo talmente immersi in un mondo materiale che, pur forti nella nostra integrità morale, spesso non basta per farci capire che il fulcro di tutto è e rimane la coscienza, la quale è impressa in noi come una legge rigorosa.
Dobbiamo quindi saper ascoltare la voce della coscienza, non ignorarla né tantomeno soffocarla, ma prestare attenzione ai suoi segnali, cogliere i suoi richiami, anche se poco piacevoli, come ci fa capire il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976) con il messaggio: «la coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del silenzio».
Dalle suddette riflessioni deriva che dobbiamo affrontare con fermezza sacrifici, privazioni, rinunce, condizionamenti, pur di non scendere a compromessi con la nostra coscienza, così come dobbiamo rinunciare all’agiatezza, al successo, alla considerazione sociale, pur di mantenere una linea di condotta improntata alla moralità, all’onestà, all’autocontrollo.
Nella vorticosa vita quotidiana, dove corriamo senza posa, la nostra vera forza deriva dalla coscienza, è solo essa che ci può far provenire le vibrazioni più alte, che ci può dotare di un grado di consapevolezza superiore, che ci può far derivare maggior serenità di vita.
In caso di soppressione della voce della propria coscienza, con conseguente cedimento al male, è inevitabile avvertire un turbamento interiore e un forte senso di colpa, per sopire il quale, ex post, non resta che porvi doverosamente rimedio, per quanto possibile, apprestandoci ad: accettare la nostra responsabilità per il male che abbiamo fatto (a noi o ad altri) o per il bene che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto; riconoscere il male fatto o il proprio torto e chiedere perdono alla persona che abbiamo offeso; cambiare il modo di agire, riparare il male fatto e cercare la riconciliazione.
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Ruolo guida della coscienza, disfunzioni della coscienza
Chiarito ciò, occorre parlare del modo di atteggiarci e della condotta da tenere a fronte delle varie situazioni che, di volta in volta, si presentano nella vita quotidiana (in relazione agli impegni, ai doveri, alle sofferenze, che essa comporta) e del ruolo che in esse viene ad assumere la coscienza individuale.
Da un lato, costatiamo che il mondo è in rapida evoluzione e che oggi si sovrappongono situazioni e problemi mai conosciuti in passato, dal campo della scienza e della tecnica a quello sociale e della professione, tutto è in via di trasformazione, dall’altro costatiamo che, a differenza del passato, le persone oggi sono più aperte al pluralismo e, conseguentemente, sono poco inclini ad accettare valori astratti e universali, hanno acquisito maggior consapevolezza della propria dignità personale e, nel contempo, sono sempre più autonome e meno disposte ad accettare che altri si sostituiscano nel pensare e nel decidere della loro vita.
Ma oggi c’è anche il timore inverso, quello che la maggior autonomia e l’accresciuta libertà di coscienza delle persone porti al soggettivismo, al relativismo morale, e quindi ad allontanarsi sempre più dall’ordine morale tradizionale.
Infatti, la tendenza di riconoscere maggior attenzione alla libertà di coscienza è da taluni contestata e da altri sostenuta, ritenendo che in una società pluralistica i problemi della vita morale si risolvano solo con la maturazione delle coscienze individuali e non con l’accentuazione del carattere obbligatorio delle norme morali.
Al riguardo, non dobbiamo dimenticare che la Costituzione pastorale Gaudium et spes del 7 dicembre 1965 riconosce la necessità di vivere e di decidere secondo la propria coscienza e di assumersene la responsabilità.
In via preliminare, per quanto attiene la decisione sulla condotta da tenere nei vari frangenti, occorre tenere presente che ogni situazione si prospetta come unica, in quanto nelle sue eventuali manifestazioni successive non è mai la stessa, nel senso che ben difficilmente si reitera con gli stessi presupposti e gli stessi elementi che l’hanno contraddistinta la prima volta.
Nell’affrontare poi ogni singola situazione, in primo luogo occorre appellarsi alle norme positive e alle regole morali, le quali ci indicano quello che vi è di tipico nella fattispecie concreta e ci aiutano così a comprenderla meglio. In secondo luogo, possono giovare le esperienze del passato, la formazione intellettuale, la cultura, i precetti morali tradizionali; in tutto ciò ognuno deve però farsi guidare dalla coscienza individuale.
Il grado di perfezione dell’azione che si andrà a porre in essere dipende dalla misura nella quale viene capita la situazione nella sua unicità e dalle priorità accordate agli elementi che precedono.
Come detto sopra, nella decisione sulla condotta da tenere, così come nella valutazione delle circostanze specifiche e delle esigenze da soddisfare, deve avere preminenza la coscienza individuale, sempre ché non ostino norme cogenti o altri perentori impedimenti. Analogamente, anche quando la situazione è tale da ammettere diverse interpretazioni oppure quando non offre alcuna chiara direttiva, è la coscienza individuale chiamata a decidere, a individuare il giusto e il retto, ad indicare quale sia la soluzione migliore, fermo restando poi il contestuale impegno di portarla a compimento.
Se alla coscienza individuale si riconoscono simili potenzialità, vuol dire che può esprimere la conoscenza del bene, ossia ciò che forma il compendio supremo di ogni valore, vuol dire che raffigura il principio e il fine ultimo, che è il senso supremo dell’essere.
Sul punto, cioè sulla necessità di agire secondo coscienza, è basilare la Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae del 7 dicembre 1965 ed in particolare l’assunto: «L’uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso».
Come detto nei Capitoli precedenti, la coscienza è ciò che abbiamo di più nostro, di più prezioso, di più importante e di più vivo, è come fosse una suprema bussola che ci orienta nell’individuazione dell’opzione più giusta, che ci indirizza verso le rette scelte della vita.
Non si deve peraltro dimenticare che la coscienza va maturata giorno per giorno perché, in ultima analisi, è il risultato di una crescita interiore e di un lungo e difficile lavoro su di sé. Infatti, la coscienza non è una cosa preconfezionata, perfetta e autonoma, tale da funzionare meccanicamente, bensì diviene e cresce col tempo, come tutto quello che vive in noi. Quindi, va soggetta ad un processo di maturazione interiore e di esperienza esteriore, nonché ad un processo di perfezionamento che può essere più o meno lungo a seconda della purificazione del nostro intimo e della nostra sensibilità.
Nell’ideale utopistico, se si potesse conseguire la maturazione generale e uniforme di tutte le coscienze delle persone, ogni nostro giorno sarebbe vissuto nella pace e nella fratellanza totale, situazione che i credenti si aspettano nella vita che verrà.
Va detto poi che la coscienza, come ogni cosa dell’uomo, può inquinarsi, andare soggetta ad errori, subire pregiudizio. Tra le principali disfunzioni che possono turbare la coscienza, tacitarne il monito o attutirne la sua voce, figurano:
- la sfera del subcosciente, i cui eventi psichici sono avvertiti solo vagamente in quanto si svolgono sotto il livello della coscienza;
- le condotte consuetudinarie o le situazioni di routine che, pur comunemente seguite dalla generalità, non sono rispondenti all’esigenza morale;
- i comportamenti a cui inducono le condizioni economico-sociali che, pur in apparenza di sano buon senso, nella realtà si rivelano moralmente riprovevoli;
- l’incosciente interpretazione di una data situazione secondo i nostri desideri o i nostri sentimenti anziché secondo la sua consistenza reale ed oggettiva;
- la formazione di un giudizio sulle persone o sul loro modus operandi secondo le nostre disposizioni interne, secondo la simpatia o l’avversione, anziché secondo principi di neutralità e di oggettività;
- gli scrupoli o il senso di responsabilità, portati immotivatamente all’eccesso, possono far vedere doveri ed obblighi là dove non ce ne sono, arrivando ad affinare oltremodo la coscienza e quindi ad alterarne il comando.
Le disfunzioni della coscienza possono derivare da problemi educativi o da problemi di formazione della coscienza (cfr. il Capitolo X, La coscienza nello sviluppo educativo), da deviazioni dottrinali, ideologiche, politiche, religiose, ma possono essere cagionate anche da pulsioni distruttive cagionate da un forte senso di colpa, ed altresì da spinte emotive di altra natura.
Altre volte le disfunzioni della coscienza possono derivare dall’assenza di qualsiasi pianificazione della nostra esistenza o da una pianificazione discordante con i valori che riteniamo fondamentali per la nostra vita. È molto importante avere un progetto di vita, che deve coniugarsi con valori, principi morali e spirituali. In fase operativa, dobbiamo essere pronti ad accettare le nostre responsabilità in presenza di sbagli che eventualmente facciamo, a fare tesoro dei falli per cambiarci in meglio, atteso che il tempo è il nostro più severo educatore.
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Il senso di colpa
Il senso di colpa può essere definito come un meccanismo della coscienza che ci procura un disagio interiore e ci fa sentire male per aver infranto il nostro codice morale, per aver tenuto comportamenti vietati, per aver oltrepassato i limiti, disagio che ci perseguita fino a quando non ci attiviamo per rimediare con un gesto riparatore.
Secondo gli psicologi, tra le molteplici cause che ci fanno sentire responsabili, e che determinano quindi senso di colpa, figura quella dell’incongruenza tra un’integerrima immagine ideale di sé e l’immagine reale della propria persona. Ad es., per effetto di un’educazione ispirata a determinati valori, si pretende da sé alto senso del dovere, senso di responsabilità, disciplina, di cui però nella realtà non si riesce a dare prova, talché nel constatare l’inadempienza o l’insufficienza si sviluppa in noi un lacerante senso di colpa. Si può provare senso di colpa in molte circostanze, come ad es., per non avere aiutato un amico nel momento del bisogno, per aver speso troppi soldi in cose futili, etc. Spesso il senso di colpa deriva da una delusione che rechiamo alle persone a cui vogliamo bene. Gli altri si aspettano delle cose che noi non facciamo o facciamo in maniera diversa da come volevano. Tale comportamento porta delusione nella persona a cui si vuole bene e senso di colpa in noi. Da tali esempi si deduce che il senso di colpa è particolarmente avvertito dalle persone sensibili e responsabili.
Il senso di colpa è spesso indipendente dalla minaccia immediata di una punizione esterna ma, se non si pone rapido rimedio, può essere però tale da accompagnarci, consapevoli o inconsapevoli, lungo tutto l’arco della vita, scandendone i momenti più significativi. Come già detto sopra, si pone rimedio apprestandosi ad: accettare la nostra responsabilità per il male che abbiamo fatto (a noi o ad altri) o per il bene che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto; a riconoscere il male fatto o il proprio torto e chiedere perdono alla persona che abbiamo offeso; a cambiare il modo di agire, riparare il male fatto e cercare la riconciliazione.
Nei casi di eccessivi compiti e responsabilità, un buon accorgimento per non sentirsi in colpa consiste nel limitare il numero degli impegni, dei doveri e delle cose da fare, facendoci carico per contro di portare a compimento quelle iniziate.
Ma poi c’è anche la persona che può fare qualsiasi azione senza provare alcun senso o sentimento di colpa, che deriva normalmente dalla violazione di un’etica, di uno standard morale accettato e fatto proprio. Il filosofo e scrittore francese Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) ha evidenziato simile comportamento con l’espressione: «taluni mandano la propria coscienza al bordello e conservano il proprio contegno in regola». Sulla stessa linea è anche il pensiero dello scrittore britannico Edward George Earle Bulwer-Lytton (1803-1873), che lo esprime con l’espressione: «la coscienza è la sostanza più elastica del mondo: oggi non copre la tana di una talpa, domani copre una montagna».
Di solito, ci sentiamo in colpa quando andiamo contro il nostro credo, contro le nostre convinzioni, contro ciò che riteniamo giusto. Ma si prova senso di colpa anche quando non siamo affatto d’accordo con noi stessi, quando poniamo in essere un’azione che ci fa sentire in conflitto con noi stessi, quando l’atto compiuto non ci fa sentire d’accordo con noi stessi, quando abbiamo fatto cose o assunto decisioni che non approviamo. Si fa l’esempio di una persona che vorrebbe smettere di fumare e non ci riesce, in quanto ogni volta ci ricasca.
Il senso di colpa si sente molto forte per non aver fatto il proprio dovere, per aver agito contro la morale, contro la legge, contro le convinzioni personali. Infine il senso di colpa si sente per ciò che non si è fatto, per ciò che si è omesso di fare, a fronte di un obbligo giuridico o morale di fare. Ad es., se qualcuno ha bisogno del nostro aiuto e noi lo neghiamo ci sentiamo in colpa, anche se in effetti non abbiamo fatto nulla di male, e però non abbiamo fatto neppure il bene che moralmente eravamo tenuti a fare. Per questo ci sentiamo in colpa.
In linea generale, si prova senso di colpa quando per seguire sconsideratamente i propri istinti si tenta di calpestare la coscienza, di imbavagliarla perché non parli, perché ci dà fastidio o comunque non ci fa comodo sentirla.
A riguardo del senso di colpa, non può mancare il severo monito del Papa Giovanni Paolo II (pont. 1978-2005): «chi non prova più senso di colpa, chi ha fatto ormai tacere la coscienza, è capace di qualunque delitto».
Capitolo XIII
La coscienza nel mondo della scienza
Le varie scoperte scientifiche sono dovute alla mente intelligente degli scienziati e dei ricercatori che, più di altri, hanno intuito e compreso l’importanza del progresso umano in tutti i suoi possibili profili.
Tanto le filosofie orientali quanto quelle occidentali hanno sempre posto il trascendente (e quindi la coscienza) al centro delle ricerche, individuando nel mondo interiore ogni principio percettivo e interpretativo del mondo esteriore. Solo dall’inizio del XVII sec. le principali discipline scientifiche hanno avviato il processo di separazione della materia dallo spirito, che fino a quel momento aveva costituito l’oggetto primario della conoscenza. Da tale epoca, il dualismo semantico tra mondo esteriore e mondo interiore ha costituito una complementarietà imprescindibile.
La prima figura di studioso che, interrompendo l’usuale metodo della ricerca, iniziò a distinguere la materia dallo spirito fu il fisico, astronomo e filosofo italiano Galileo Galilei (1564-1642), le cui scoperte scientifiche crearono una forte reazione da parte della Chiesa in quanto andavano a demolire antichi dogmi teologici e filosofici.
Un’altra grande figura di studioso, contemporaneo di Galilei, fu quella del filosofo e matematico francese René Descartes, in Italia conosciuto come Cartesio (1596-1650), autore di numerose opere letterarie e scientifiche, da molti considerato l’iniziatore della filosofia moderna ed uno dei più grandi e influenti pensatori nella storia dell’umanità. Nella sua opera Le Monde (pubblicazione postuma, probabilmente da lui stesso trattenuta conoscendo le repressioni subite da Galilei), ha distinto la materia dallo spirito, proponendo una netta separazione di campi e ambiti di competenza: la Chiesa ha come pertinenza la res cogitans – sostanza cosciente, ossia l’anima e lo spirito, che è immateriale, mentre la scienza deve occuparsi esclusivamente della res extensa – sostanza materiale, ossia della materia vile. Cartesio affronta la vecchia questione «della mente e del corpo», sostenendo che il corpo umano è come una macchina, guidata dall’anima attraverso la ghiandola pineale. Con la separazione dei due elementi, affermava Cartesio, la Chiesa non avrebbe subito pregiudizio di sorta e si sarebbe potuto consentire una piena e libera espansione alla scienza. In altri termini, la separazione di domini, sostenuta da Cartesio (nel suo libro Principia philosophiae), pur comportando la rimozione della coscienza da ogni ricerca scientifica, non avrebbe privato la Chiesa del suo potere. La scienza, dal canto suo, una volta liberata da vincoli religiosi, si sarebbe appropriata della realtà materiale e si sarebbe potuta espandere in ogni campo.
Detta teoria cartesiana è oggi superata, prevalendo l’idea antitetica che la natura umana non può essere divisa in due settori distinti: da una parte lo spirito dell’uomo che provvede alle scelte e alla progettualità e dall’altra la materia suscettibile di manipolazioni a piacere. Oggi si ritiene che la natura umana sia caratterizzata da una unità inscindibile, che si esprime con lo spirito e con il corpo.
Oltre alla citata teoria della distinzione tra materia e spirito, che come detto sopra è oggi superata, sono molto avvincenti le teorie cartesiane sul dubbio e la certezza, tradotte nelle formule: dubium sapientiae initium – il dubbio è l’origine della saggezza (René Descartes, Meditationes de prima philosophia); cogito ergo sum – penso dunque sono (Discorso sul metodo), ad indicare che l’uomo riscopre la sua esistenza nell’esercizio del dubbio: se dubita pensa e se pensa esiste. Cartesio, praticando il metodo del dubbio, notò di poter dubitare di tutto, tranne della propria esistenza: se per pensare occorre un soggetto, vuol dire che il soggetto esiste, cogito, ergo sum. In altri termini, se è propria dell’uomo la facoltà di dubitare, questo semplice fatto sta ad indicare che è sicuro di esistere. Sarebbero questi i principi su cui ricostruire l’edificio della conoscenza. Nel pensiero cartesiano, la costruzione del sapere avviene attraverso il metodo della deduzione, mentre i sensi sono privati di ogni dignità conoscitiva.
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Le prime correnti filosofiche del materialismo
Nella seconda metà del XVII sec. nascono le prime correnti filosofiche del materialismo, che riconoscono solo l’esistenza della sostanza fisica, negando l’esistenza dell’anima e di ogni sostanza spirituale. Secondo tali correnti filosofiche tutte le cose hanno natura materiale, l’unica realtà che può veramente esistere è la materia, e tutto deriva dalla sua continua trasformazione. L’ideatore e il caposcuola del materialismo moderno è considerato il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), secondo il cui pensiero «la materialità è l’unico oggetto della conoscenza su cui la ragione è chiamata ad operare».
Il concetto filosofico di materialismo è poi affrontato anche dal grande scienziato, chimico e fisico irlandese Robert Boyle (1627-1691), nei cui scritti lo descrive come «un indirizzo di pensiero che individua nella materia la causa unica dell’essere».
In prosieguo di tempo, il concetto del materialismo, proprio del campo filosofico, è entrato nel patrimonio culturale occidentale con significati in parte diversi e difformi dal significato iniziale, tra cui: a) in campo filosofico, come dottrina che considera la materia il substrato concreto di tutte le cose; b) in campo culturale, come contrario di idealismo e di spiritualismo; c) in campo religioso, come idea affine ad ateismo (l’essere soprannaturale è una costruzione materiale dell’uomo); d) in senso generale, come idea secondo cui nella vita hanno valore e sono da ricercare solo i piaceri e i beni materiali.
Nell’idea dei filosofi tedeschi Karl Heinrich Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), fondatori del c. d. «materialismo storico» e del «materialismo dialettico», la coscienza è «una sovrastruttura della base economica e sociale» e «pensiero e coscienza sono prodotti del cervello umano e i prodotti del cervello umano sono anch’essi prodotti naturali».
Di grande rilevanza, sul concetto di materialismo, è poi il pensiero di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), per il quale la coscienza è «l’immagine mascherata di una serie di meccanismi istintuali».
Una scuola di pensiero del nostro tempo ha elaborato un nuovo ampio concetto di materialismo, pretendendo di farvi rientrare, oltre alle entità osservabili (corporee) e non osservabili (energie in genere), anche il mondo spirituale con la motivazione che «deriva dai fenomeni complessi, dando l’erronea sensazione di esserne autonomo e indipendente». Non serve molto acume per capire che tale nuovo concetto di materialismo è privo di logica e ragionevolezza, in quanto è noto che materialismo e spiritualismo sono antitetici. Il concetto in questione, che rivela un evidente substrato politico, non può che essere destinato all’insuccesso, sia perché si fonda sull’equivoco e sull’ipocrisia, come anche perché assume il tratto distintivo di un «materialismo imposto».
Ma anche a voler prescindere dal concetto di materialismo elaborato da quest’ultima scuola di pensiero, se osserviamo da vicino il materialismo nel suo complesso scopriamo che, nella realtà, non trova basi forti e affidabili per formulare una tesi filosofica compiuta ed inoltre manca delle premesse per soddisfare le aspirazioni della generalità che, nelle loro propensioni naturali, tendono alla spiritualità, come dimostra tutta la storia dell’umanità.
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L’arresto della cultura materialista
Nel mondo contemporaneo, diviso da mille ideologie, poteri e culture, non sono pochi i sostenitori della cultura scientista, orientati a riconoscere la scienza come unica deputata ad esprimere la verità assoluta in ogni campo. Qualcuno di essi vuole financo lasciar intendere che la scienza può in qualche modo prendere il posto della religione.
Pur riconoscendo che la scienza ha contribuito a creare le basi per una cultura trasversale tra i popoli, è però assurda e priva di fondamento l’idea che la stessa possa in qualche modo sostituirsi alla religione, semplicemente perché si tratta di due ordini contrapposti: il primo è proprio della sfera materiale, mentre il secondo è proprio di quella spirituale.
Dobbiamo però tenere presente che gli sviluppi della scienza fisica e della scienza biologica di questi ultimi decenni hanno cambiato radicalmente il rapporto uomo-natura, ponendo nuove responsabilità in capo ai tecnici, oltre che nuovi problemi di ordine morale e di coscienza in capo ai destinatari degli interventi. Di fronte a ciò, si rende necessaria una crescita di moralità, non solo nell’affrontare le scelte tecniche ma anche nel distinguere quanto si può fare e quanto non si deve fare. La valutazione dei singoli atti richiede altresì la capacità della coscienza umana di individuare immediatamente e con chiarezza i principi universali della morale e di distinguere quindi il bene dal male.
Fin dai tempi di Galilei (1564-1642) e di Cartesio (1596-1650), come detto sopra, esiste una separazione tra lo spirito e la materia, tanto che quest’ultima è divenuta l’oggetto primario della ricerca scientifica.
Oggi, è comunemente accolta l’idea che la scienza, nel significato proprio di conoscenza, indaga la realtà esteriore e, da gran parte degli studiosi, è parimenti accolta l’idea che la scienza non può prescindere dalla realtà interiore, in quanto una scienza senza coscienza sarebbe un enorme pericolo, un potere freddo e privo di sensibilità umana. Secondo l’idea di gran parte degli studiosi, la scienza che nega la coscienza impoverisce la comprensione della scienza stessa, in quanto per conoscere la materia occorre conoscere la vita, così come per conoscere l’essere umano occorre percepirne la psiche e le emozioni.
Ad ogni modo, il tema della coscienza suscita oggi ampio interesse tra gli scienziati ed i ricercatori, al punto che molti di loro si sentono stimolati a conoscerne la natura. Nel contesto delle ricerche filosofiche e scientifiche, la coscienza è da questi considerata come parte integrante di ogni realtà e posta al centro di ogni ricerca scientifica. Del resto, non a caso le dottrine e le filosofie orientali hanno sempre posto la coscienza al centro della ricerca.
Nel mondo della scienza, da un lato si considera inevitabile il dualismo semantico tra mondo esteriore e mondo interiore, tra realtà esteriore ed interiore, definito come una complementarietà da cui non è possibile sfuggire, dall’altro, però, in questi ultimi decenni, si nota una certa tendenza filosofica e scientifica volta a riformulare i termini della ricerca, indirizzandola verso una concezione scientifica olistica, di tal che il campo di conoscenza scientifica non prescinda dalla coscienza o quantomeno venga ridotta la dicotomia tra scienza e spiritualità.
Per il bene dell’umanità, è auspicabile che si prosegua nella riduzione della distanza tra scienza e spiritualità e che l’intelligenza internazionale, nell’immediato futuro, si adoperi proficuamente al fine di addivenire ad un avvicinamento tra le due realtà.
Un dato confortante di questi ultimi decenni si intravede nell’arresto del materialismo, che ha perso quell’iniziale interesse con cui si era contraddistinto nei due secoli precedenti, conquistandosi l’attenzione di qualche strato della popolazione. Infatti, non solo è fallita la conclamata straordinaria ed epocale prospettiva socio-economica marxiana, ma la società moderna ha confermato la sua tendenza millenaria verso una visione ultra terrena della vita, dimostrando così un forte e diffuso ritorno allo spiritualismo. In breve, si pongono sempre più a fondamento delle proprie scelte di vita i valori spirituali, in contrapposizione a quelli della vita materiale.
Tale cambio di tendenza nell’età contemporanea, a detta degli osservatori dei fenomeni sociali, regge anche a fronte della lacerante contraddizione della modernità, che oppone una sfera pubblica astratta a una sfera privata priva di orientamenti, così come regge agli attuali grossi cambiamenti sociali e alla c.d. «crisi della modernità», causata dal mito del progresso, dallo sfruttamento dell’altro, dalle nuove visioni introdotte dalla scienza, dalla logica del mercato, dall’individualismo degenerato nel narcisismo, etc. Per quanto strano possa apparire, anche i frustrati della modernità finiscono per porsi domande sulla spiritualità e non certo per dipendenza intellettuale ma per una insopprimibile necessità di spiritualismo nell’affrontare le difficoltà esistenziali legate al benessere.
Altra importante ragione di fondo che genera una aperta ostilità nei confronti del materialismo è data dal fatto che le sperimentazioni e le ricerche scientifiche sono spesso ispirate da finalità utilitaristiche piuttosto che dal bene comune e da interessi della generalità. Di più, il pensiero materialistico orienta spesso la scienza, la tecnologia, il progresso scientifico, verso finalità strumentali ed opportunistiche, in spregio della spiritualità e del sentimento religioso. In particolare, si nutre una diffusa sfiducia verso la scienza laddove questa faccia dominare il pensiero materialistico su quello spiritualistico, deprimendo o condizionando la sfera decisionale del singolo. Talvolta, il pensiero materialistico trasfuso nella scienza e nella tecnologia si dimostra essere financo produttore di disumanizzazione e di guasti per l’ambiente.
Un’ulteriore ragione di fondo che induce a respingere fermamente il materialismo è data dal fatto che il pensiero filosofico contemporaneo tende ad includere nella realtà materiale e nei fenomeni reali, oltre agli oggetti e fatti della percezione umana, anche i sentimenti, in tutte le espressioni possibili: conoscitive, etiche, estetiche, etc. È questo l’ennesimo espediente farisaico del pensiero materialistico per far entrare dalla finestra quello che non può entrare dalla porta. In breve, con artifici filosofici si vuole ancora una volta camuffare la realtà con la finzione, pretendendo di far considerare la spiritualità come materialità, quando invece sono due cose incompatibili e contrapposte.
Capitolo XIV
La coscienza nel mondo della politica
Il moderno concetto di democrazia deriva dalle idee illuministe, dalle rivoluzioni dell’Ottocento, dalla Rivoluzione francese (con il suo motto di libertà, uguaglianza e fratellanza) e si fonda sulla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), sul suffragio universale e sulla preminenza della costituzione.
Gli strumenti per l’esercizio del regime democratico sono l’elezione dei rappresentanti da parte del popolo, il referendum abrogativo e il referendum propositivo, che possono essere indetti dal Parlamento e dal Governo o direttamente dai cittadini, tramite le petizioni popolari. Tra le più salienti caratteristiche dei moderni regimi democratici figura la separazione tra Stato e Chiesa e la laicità dello Stato.
La democrazia può essere definita come sistema politico dotato di un insieme di regole e di procedure (leggi e disposizioni giuridiche), liberamente adottate dai competenti organi istituzionali, necessarie per garantire la pacifica convivenza e la risoluzione pacifica dei conflitti sociali.
Nell’ambito degli Stati democratici si distinguono differenti gradi di democrazia, in dipendenza dei peculiari ordinamenti interni, e quindi diversi modi di conduzione delle pubbliche istituzioni.
Le valutazioni del 2008 sullo stato della democrazia nei principali Paesi del mondo, effettuate da Democracy index (concentrate su cinque categorie generali: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzione del governo, partecipazione politica e partecipazione culturale), individuano quattro tipi di regimi nelle 167 nazioni prese in esame, identificando: 30 democrazie complete, 50 democrazie imperfette, 36 regimi ibridi, 51 regimi autoritari. La Svezia è risultata la nazione più democratica al mondo (seguita da Norvegia, Islanda, Paesi Bassi, Danimarca, Finlandia, distanziate l’una dall’altra da pochi decimi di punto), mentre l’Italia si è classificata al ventinovesimo posto (la prossima valutazione di Democracy index è attesa a breve).
Tra le garanzie fondamentali dei regimi democratici figurano: libertà di pensiero e di espressione, libertà di associazione ed organizzazione, elezioni libere (elettorato attivo e passivo), diritto di voto (personale, libero, segreto), pluralismo partitico, riconoscimento dei diritti civili e politici, magistratura indipendente, pluralità delle fonti di informazione.
Di grande rilevanza è poi la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dalle Nazioni Unite nel 1948, in cui è sancito che ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, di cambiare religione, di manifestare sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo. (art.18). In parte, questi obiettivi sono ancora disattesi, per cui si rende necessario orientare la società verso «principi etici universali, in cui i diritti e le libertà fondamentali possano essere pienamente riconosciuti e realizzati».
Ai regimi democratici si contrappongono i regimi non democratici (regimi nazionalisti, fascisti, comunisti, teocratici), nei quali i diritti dei cittadini non hanno alcuna garanzia di essere rispettati, i detentori del potere politico acquisiscono le cariche con l’uso della forza (e non a seguito di competizioni elettorali) ed esercitano il potere in maniera arbitraria. Nell’ambito dei regimi non democratici si distinguono i regimi: autoritari, totalitari (di destra o di sinistra), militari, civili-militari, civili (nazionalista, fascista, comunista), oligarchici.
Detti regimi non democratici adottano sistemi di governo assolutistici, che limitano fortemente le garanzie fondamentali, in particolare la libertà di pensiero e di espressione, arrivando ad influenzare e condizionare la cultura dei cittadini, a plagiare le menti e le coscienze degli stessi con l’imposizione di una ideologia ufficiale di stato. Le caratteristiche salienti dei regimi non democratici sono la concentrazione del potere in capo ad un’oligarchia inamovibile e politicamente irresponsabile, la presenza di un partito unico di massa, l’uso del terrore e dell’intimidazione come metodo di governo per consolidare il potere.
È di tutta evidenza che nel contesto dei regimi totalitari imperversa solo la «non coscienza» nell’uso del potere in quanto ogni idealità dei singoli è asservita all’ideologia di stato. Le autorità dei regimi totalitari che nell’esercizio del loro potere sostengono di agire secondo coscienza e, più in generale, osano parlare di coscienza pulita, mentono spudoratamente, sapendo di mentire.
Tra i vari regimi autoritari che hanno caratterizzato il secolo scorso fa spicco il fascismo, sorto dopo la prima guerra mondiale per iniziativa di Benito Mussolini (1883-1945), regime che aveva carattere nazionalista e totalitario. Il fascismo, sorto come movimento rivoluzionario nel 1922 si costituì dittatura nel 1925, fu radicalmente contrapposto al comunismo ma la sua esatta natura è a tutt’oggi oggetto di controversia. Altro regime totalitario di grande spicco fu il «Drittes Reich – terzo reich» tedesco (1933-1945), fondato sull’ideologia nazista. A proposito della «non coscienza», o della negazione della coscienza, nell’uso del potere da parte di tale regime totalitario, è di particolare spietatezza e malvagità il caustico motto del Führer Adolf Hitler (1889-1945): «dobbiamo essere crudeli, dobbiamo riabituarci ad essere crudeli con la coscienza pulita». Non dissimile è il detto del Feldmaresciallo Hermann Göring (1893-1946): «io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler». Ulteriore regime politico dittatoriale fu il franchismo instaurato in Spagna nel 1939 dal generale Francisco Franco (1892-1975). Pur privo di una forte ideologia, come era il fascismo, il movimento franchista fu in ogni caso reazionario, fondato sui tipici riferimenti della secolare cultura spagnola «Trono-Spada-Altare», vale a dire «monarchia-esercito-chiesa».
I comuni cittadini nei regimi totalitari sono totalmente condizionati e limitati, non possono scegliere di essere contro il regime e agire di conseguenza perché rischiano l’annientamento, non possono manifestare il loro pensiero perché si espongono a sicure ripercussioni, non possono agire secondo coscienza perché il regime li elimina definitivamente. Privati di qualsiasi genere di libertà, i cittadini sono ridotti ad una forma di schiavitù ed a condurre un’esistenza non dissimile da quella degli animali. Ben lungi dal considerare i cittadini soggetti di diritto, il regime totalitario mira ad annullare anche la loro personalità morale, di modo che dell’essere umano rimanga solo una vuota individualità.
Riferendosi ai regimi totalitari, il neurologo e psichiatra austriaco Viktor Frankl (1905-1997), uno dei personaggi più grandi della moderna psicologia (prigioniero in quattro campi di concentramento nazisti dal 1942 al 1945), ha scritto che «solo una coscienza sveglia ed affinata rende l’uomo capace di prendere posizione e di immunizzarsi contro il conformismo (fare quello che fanno tutti) e contro il totalitarismo (fare quello che vogliono gli altri)».
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Scuole di pensiero che riconoscono o negano la coscienza
In un paese a sistema democratico, sono costituzionalmente garantite ampie libertà e, in astratto, non si dovrebbe correre rischio alcuno di manipolazione della coscienza individuale, tanto più che la stessa, per nostra fortuna, è elevata a valore costituzionale e, come tale, gode di ampia tutela giuridica (amplius, cfr. il Capitolo XII).
In realtà, nel campo della politica, si rilevano illimitate forme di alterazione della coscienza, ad iniziare dal deplorevole «voto di scambio», vale a dire a chi dà il proprio voto a quel politico che promette in cambio una cosa: un posto di lavoro, un incarico pubblico, un contributo pubblico, una concessione amministrativa, una licenza, etc.
Chi sogna poi di cimentarsi in politica deve mettere in conto che la sua è un’impresa ardua, che spesso non consente di mettere al riparo la propria coscienza da attacchi ed aggressioni di ogni tipo. Operare nel campo della politica vuol dire confrontarsi e sfidare sistemi clientelari, faziosi o strumentali, avventurarsi in una infinita serie di cose poco pulite, da cui per uscirne indenne si dovranno dimostrare doti non comuni.
In breve, chi opera in politica dovrebbe seguire la voce dell’interiorità e adoperarsi con forza e coraggio per farla prevalere sull’esteriorità e per riuscire in questo deve possedere un animo retto e un’integrità morale ineccepibile, oltre a fare ogni sforzo per non lasciarsi intaccare dalle mele marce della politica. Appellandosi poi alla propria coscienza morale, il politico deve far prevalere sempre la funzione morale su quella egoistica, esprimendo ogni volontà in perfetta sintonia con la propria coscienza, la quale è chiamata ad assolvere un’altissima funzione, non solo a livello personale, ma anche nei rapporti interpersonali e nei rapporti politici.
Le considerazioni che precedono presuppongono il riconoscimento della coscienza da parte dei politici ma non dobbiamo dimenticare che molti di essi seguono scuole di pensiero di cultura materialista, e taluni di cultura scientista, che negano la coscienza.
Tali scuole di pensiero partono dall’idea che nel mondo della politica, quale luogo dove trova compensazione il conflitto delle diverse posizioni, la coscienza individuale non si concilia con la responsabilità collettiva, cioè con l’insieme delle coscienze individuali destinate a costituire la base per lo sviluppo e la crescita della società. Le stesse scuole di pensiero arrivano finanche ad affermare che chi intende attenersi rigorosamente ai principi della propria coscienza non deve entrare in politica, perché i principi dettati dalla coscienza individuale difficilmente si conciliano con gli interessi generali, che sono la risultanza di una mediazione tra i diversi gruppi politici. I principi dettati dalla coscienza individuale, affermano dette scuole di pensiero, sono espressione di testimonianza, non consentono alcun genere di mediazione e non possono che attenere alla condotta della vita privata. Tali principi, sempre secondo dette scuole di pensiero, devono in ogni caso rimanere del tutto estranei alla politica, per la quale la mediazione è connaturale e non può prescinderne nel perseguimento degli interessi generali della collettività.
È ben vero che la politica è la ricerca di un continuo equilibrio tra ideali e interessi, la conciliazione dei conflitti e degli interessi contrapposti, ma è altrettanto vero che è anche la gestione delle passioni che alimentano gli ideali, tra cui fanno spicco tutti quelli riconducibili alla coscienza individuale la quale, come detto più sopra, gode di ampia tutela giuridica.
Dalle trattazioni su riportate emerge chiaramente che l’attuale quadro politico vede, potenzialmente, contrapposte due posizioni inconciliabili, una contraddistinta da culture materialiste e scientiste che negano la coscienza, l’altra contraddistinta da una cultura dei valori e dell’idealità che, almeno negli intenti, riconosce la coscienza.
La cultura materialista deriva dalle correnti filosofiche del positivismo del XVII sec. che negano l’esistenza dell’interiorità spirituale, quindi della coscienza, e riconoscono solo l’esistenza della sostanza fisica. In prosieguo di tempo, tali dottrine filosofiche sono state sviluppate e propugnate da figure di spicco, quali in particolare: dal filosofo tedesco Karl Heinrich Marx (1818-1883), per il quale la coscienza morale è «una sovrastruttura della base economica e sociale»; dal filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), per il quale la coscienza è «l’immagine mascherata di una serie di meccanismi istintuali»; dal neurologo e psicoanalista austriaco Sigmund Freud (1856-1939), per il quale la coscienza è «la frazione di una realtà psichica prevalentemente inconscia».
La cultura dei valori e dell’idealità si contrappone alla prima in quanto fonda le proprie radici nel principio che la politica non si può separare dalla morale e non può prescindere dalla coscienza. A dispetto delle culture materialiste e scientiste che negano la coscienza, l’esperienza quotidiana dimostra che i principi dettati dalla coscienza qualificano in tutti i modi la vita, incrementano la morale sociale e sono pienamente compatibili con l’agire politico. Inoltre, il pensiero di questa seconda cultura rimane legato a indiscutibili idealità, oltre che a tre valori fondamentali: rispetto della vita; rispetto della dignità propria e di ogni altra persona; il perseguimento del bene comune.
Gli organi centrali (Parlamento e Governo) e gli organi istituzionali locali comprendono persone che si riconoscono nell’una o nell’altra delle due culture anzidette e, allorquando siano in discussione argomenti legati ai citati valori fondamentali, il più delle volte sortiscono effetti a dir poco deludenti. I rappresentanti politici, per poter governare, devono procedere sulla base di incessanti compromessi, che si sostanziano nel rinnegare in continuazione le proprie idealità, i propri principi, a scapito dell’una, dell’altra o di entrambe, le forme di pensiero.
Le azioni politiche che ne scaturiscono sono un mixtum compositum che non soddisfa nessuno, in quanto sono il frutto di scelte e di decisioni politiche maturate in un clima di confusione e di disordine, una mescolanza di cose o di situazioni dissimili accostate caoticamente tra di loro.
Chi ne trae vantaggio da questa accozzaglia di idealità politiche sono gli stessi fautori, i protagonisti dei compromessi politici, i quali, noncuranti dell’iniquo e disonesto modo di operare, si assicurano la possibilità di mantenere la loro comoda poltrona politica, fin tanto che gli elettori non cessano di rinnovare loro la fiducia.
In tale stato di cose, allorquando siano in discussione argomenti legati ai citati valori fondamentali, è inevitabile che i singoli componenti le aggregazioni politiche, operando sulla base di due culture inconciliabili, finiscano per agire in assenza di etica politica.
Per quanto riguarda in particolare i singoli componenti le aggregazioni politiche che si riconoscano nella cultura delle idealità e dei valori fondamentali anzidetti, si rileva come troppo spesso nell’agire politico finiscano per cedere a compromessi con la propria coscienza, assumendo in modo sistematico comportamenti anticoscienza.
Per tali politici, ammesso che si possa parlare di coscienza, sarà solo in senso figurato, immaginandola composta di tanti «ambienti», tutti incomunicanti tra di loro, di modo che il politico possa appellarsi all’indulgenza di qualcuno di essi, all’insaputa l’uno dell’altro, nel vano tentativo di trovare conforto alle proprie malefatte.
In estrema sintesi, laddove siano in discussione argomenti legati ai citati valori fondamentali, i politici dell’una e dell’altra cultura, se dicono di agire con etica politica e rispettivamente con coscienza pulita mentono spudoratamente, sapendo di mentire.
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Disaccordo su tutto ma fanno eccezione i privilegi
La politica è il più importante strumento di azione nei processi collettivi, diretto a determinare l’organizzazione della società. Negli stati moderni, la politica domina tutte le sfere sociali ed individuali, spaziando dai sistemi organizzativi generali, all’economia, alla sanità, al lavoro, all’educazione, all’ambiente, all’arte, alla sicurezza, agli assetti di giustizia, ai principali rapporti intersoggettivi, alle vicende connesse con la vita e la morte delle persone, etc.
Le linee politiche generali sono prestabilite con norme positive (costituzione, leggi ordinarie, statuti, decreti, regolamenti), mentre quelle operative sono realizzate dagli organi esecutivi (consiglio dei ministri, giunte regionali, provinciali, comunali, etc.) ed infine le funzioni di giustizia sono assolte dagli organi di giustizia, secondo le norme fissate dall’ordinamento giuridico.
Dall’eterogeneità delle scelte e dall’instabilità dei comportamenti politici si ricava l’impressione che l’assetto istituzionale così formato stia troppo stretto all’odierno mondo della politica, contrassegnato com’è da continui mutamenti di pensiero e di visione generale. Il mondo della politica precedente all’attuale, pur nei suoi infiniti difetti, era però caratterizzato da idealità, mentre il sistema odierno è concepito come una sorta di regolamentazione del vivere sociale e civile secondo gli interessi del momento ma, soprattutto, secondo i compromessi raggiunti all’interno delle forze di governo e, talvolta, secondo quelli delle due culture contrapposte e inconciliabili tra loro, come chiarito più sopra.
I politici sia dell’una che dell’altra cultura hanno peraltro molti modi comportamentali in comune, chiaramente tutti di immagine negativa, tra cui fa spicco il deprecabile malcostume dell’ipocrisia. In loro si nota la tendenza ad affermare un’idea e comportarsi poi in maniera contraddittoria ad essa, allo scopo di farsi benvolere o rendersi graditi al maggior numero di persone oppure allo scopo di mascherarsi dietro ad una facciata di perbenismo. In buona sostanza, si riscontrano forme generalizzate di incoerenza nei politici tra gli obiettivi e/o i valori che enunciano esplicitamente e le azioni effettivamente svolte. I politici che si macchiano di simili disonorevoli condotte di ipocrisia, quando si vedono scoperti, reagiscono in modo altrettanto ipocrita, nel vano tentativo di spiegare e giustificare il comportamento assunto, dichiarandosi estranei al fatto addebitato o attribuendolo a circostanze straordinarie, a cause imprevedibili, a motivi contingenti, etc.
I più raffinati nell’arte politica, nel vano tentativo di giustificare il comportamento tenuto, sanno poi giocare sul doppio senso delle affermazioni proprie o di altri, rendendo la situazione ancora più grottesca di quello che è. Sconcerta poi dover constatare la «tumulazione» della trasparenza in campo politico ed altresì sconcerta dover constatare come le forme generalizzate di ipocrisia abbiano generato una delusione sociale senza precedenti.
Tutti questi deplorevoli modi di fare dei politici, in ultima analisi, altro non sono che veri e propri comportamenti di «non coscienza» o di anticoscienza, a cui i cittadini dovrebbero in qualche modo reagire, negando comunque il loro appoggio in occasione della futura tornata elettorale.
La classe politica dovrebbe tendere a risolvere i veri problemi del Paese, caratterizzarsi per «il fare», dare vita ad interventi politici mirati, con grande senso di responsabilità, e non limitarsi ad uno sterile cicaleccio, continuo e ripetitivo, come constatiamo quotidianamente, cicaleccio che alla fine si sostanzia in un «non fare».
Ma il primo problema della nostra classe politica pare derivi da una sorta di circolo licenzioso interno al sistema, determinato in larga parte dalle ragioni di fondo più sotto riportate. Qui basti dire che le due culture di cui si è parlato sopra, pur discordi su tutto, sono sempre inspiegabilmente d’accordo sulla conservazione dei benefici, delle prerogative e dei privilegi, propri della «casta», che sono tra l’altro i più elevati nei Paesi della Comunità europea. Ai nostri parlamentari, come è noto, spetta l’appellativo di onorevole, in ordine al quale nulla quaestio, anche se i loro lauti benefici, prerogative e privilegi, si devono invece considerare disonorevoli.
La classe politica è qui intesa come i rappresentanti politici eletti dal popolo, quindi va tenuta distinta dalla classe dirigente, identificata nella classe sociale che detiene le leve socio-economiche, corrispondente al complesso di individui che hanno la direzione dell’economia in generale, anche se poi in realtà le due classi interagiscono, instaurando inevitabilmente stretti rapporti. Sia la classe politica, a cui compete la guida politica, sia la classe dirigente, che svolge un ruolo di guida nel campo sociale, economico, culturale, nel nostro Paese appaiono in profonda crisi, sembrano come chiuse in se stesse, ciascuna assillata solo dai propri interessi, ciascuna incapace di guardare lontano, di vera innovazione, di generare sviluppo collettivo e progresso sociale. Ambedue appaiono incapaci di una forte etica pubblica, ambedue incapaci di favorire il ricambio interno, ambedue impostate sul deprecabile sistema della cooptazione, ambedue poco inclini a premiare il merito, di abbandonare i criteri del favoritismo nelle scelte a vantaggio delle capacità individuali.
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L’oscuro mondo del diavolo
A fronte del cupo quadro generale sopra descritto, l’attuale mondo della politica si presenta come pervaso dallo spirito del male, che imperversa in ogni ambiente ove si trattino affari pubblici, per cui si può ben definire come «mondo del diavolo» perché ha natura oscura e mutevole, ha molte anime faziose e sono per lo più l’una contro l’altra.
Chi ne fa parte è posto nella condizione di venire subito a patti col diavolo e di accettare a priori di sottoporsi a compromessi, drastico sistema che non tollera eccezioni e che impone ad ogni aderente di non farsi scrupoli, di non avere timori di sorta, né tanto meno manifestare problemi di coscienza.
L’attuale arcano sistema prevede che l’entrata nel «mondo del diavolo» avvenga solo su chiamata messianica dei partiti politici, nel senso che i candidati alle elezioni politiche vengono prescelti dai partiti politici. I cittadini, con il loro voto, si limitano solo a ratificare le investiture fatte dai partiti politici, senza possibilità di esprimere preferenza alcuna, il tutto in aperta violazione del principio costituzionale che sancisce il voto libero (art. 48 Cost.) e dell’ulteriore principio della sovranità popolare (art. 1 Cost.), soppiantata nei fatti dalla «sovranità partitica».
Una volta entrati poi nel «mondo del diavolo», i politici non tardano a plasmare la loro interiorità secondo le arcane esigenze del partito di appartenenza e ad assumere la pseudo coscienza imposta dal partito medesimo. Non appena postisi in quest’ordine di idee, i «neofiti del diavolo» assumono identità satanica, che li contraddistingue all’istante per spirito egoarchico, convinti come sono di potersi erigere al di sopra della morale comune.
In breve, per ordine e disciplina di partito, la figura del politico è defraudata ipso facto della propria coscienza e privata di autonoma capacità di giudizio.
Una volta insediatosi a tempo pieno nel «mondo del diavolo», il politico viene inspiegabilmente ad assumere la singolare idea di superuomo, non disgiunta da quella di immortalità, idee perverse sotto ogni punto di vista. Di più, una volta raggiunto l’olimpo, ossia una volta stabilitosi nel «mondo del diavolo», il politico è incline a divenire dominatore, accentratore, aggressivo, individualista, perversioni queste che divengono inverosimilmente un fatto normale, «attitudini» per fare strada politica ed essere ancora votato.
L’ingresso nel «mondo del diavolo» e la sottoposizione a questi radicali cambiamenti di personalità è pressoché scontata e immediata, senza eccezioni o vie di scampo per nessuno.
Gli appartenenti al «mondo del diavolo», i «diavoletti», in connessione a quanto sopra ed ai deleteri comportamenti che sono soliti tenere, non vanno certo esenti da pesanti accuse per la loro notoria, quanto deprecabile, propensione a:
- cercare segrete intese politiche anche con i diavoli avversari, nella prospettiva di ricavare qualche vantaggio individuale;
- assegnare le nomine in seno alle istituzioni pubbliche in base al criterio dell’appartenenza politica piuttosto che in base al merito;
- imporre in qualsiasi modo rappresentanti di partito in tutte le sfere sociali, al fine di tenere sotto controllo l’andamento della società e delle sue ricchezze materiali;
- seguire la c. d. «politica dello struzzo», ossia fingere di ignorare i problemi, anche i più pressanti, per non doverli affrontare;
- plasmare con destrezza le normative, onde poter agevolmente assecondare interessi di parte;
- perseguire l’interesse di pochi, se non il proprio interesse, all’interno delle istituzioni, a scapito di quello pubblico;
- sostenere interessi particolari o dissimulati nel collateralismo tra affari e politica;
- appoggiare gruppi di pressione che tendono alla difesa faziosa di modelli eticamente inaccettabili;
- appoggiare forme di baratto politico, da cui deriva un proprio bel vantaggio;
- manipolare le coscienze, al fine di uniformarle alle ideologie e agli interessi del partito di appartenenza;
- creare una sorta di assopimento delle coscienze individuali degli iscritti al partito e dei vari simpatizzanti affinché possano emergere e svilupparsi senza patemi di sorta le ideologie e gli interessi del partito;
- parlare e operare solo secondo l’utile del partito di appartenenza, o in funzione della relativa ideologia, prescindendo dalle reali ed oggettive necessità ed esigenze dei cittadini;
- edulcorare i fatti e gli eventi facendo in modo che possa ben figurare il proprio partito, a danno di altri, al fine di attirare nuovi iscritti e nuovi simpatizzanti ma anche al fine di accreditarsi prestigio e popolarità;
- frenare la crescita, dentro e fuori il proprio partito, delle percezioni individuali e mantenerle possibilmente allo stato «dormiente», al fine di evitare il consolidarsi di aspirazioni e di idealità politicamente avverse o non gradite;
- curare una propria immagine di pura apparenza, sempre pronti a dichiarare che il proprio operato è nell’interesse generale, senza peraltro dimostrarlo;
- fare in modo di rappresentare solo ciò che piace ai propri elettori, non preoccupandosi se i propri comportamenti sono fondati sull’equivoco o sull’ipocrisia;
- assecondare, a parole, le legittime richieste o aspettative dei cittadini, salvo poi, nei fatti, ignorarle all’istante e, se rinnovate per iscritto, cestinarle immediatamente in modo che non rimanga traccia.
Queste non sono che alcune rapide allusioni sui cattivi comportamenti tenuti dagli appartenenti al «mondo del diavolo», molte altre se ne potrebbero aggiungere ma per inquadrare l’argomento qui trattato della coscienza nel mondo della politica sembrano comunque sufficienti quelle suesposte.
Da quanto sopra emerge un avvilente impoverimento della politica, spesso ridotta ad un contrasto violento di idee e di ideologie inconciliabili, ad una rissa fine a se stessa, in cui non si risparmiano reciproche offese, quando non si sostanzia in una tecnica di gestione di interessi di parte, e nel contempo emerge un biasimevole obnubilamento dell’etica e dei valori di riferimento dell’agire politico.
La cosa più inquietante, a fronte del indecoroso quadro d’insieme sopra riportato, è dover constatare l’assuefazione dei cittadini, la cui accettazione passiva della presente squallida situazione, senza reazione alcuna, fa pensare che abbiano perso anche la capacità di indignarsi.
I brevi cenni sopra riportati indicano chiaramente che il «mondo del diavolo» non è caratterizzato da un’etica sociale e politica dettata dalla coscienza ma da comportamenti politici anticoscienza, frammisti a ideologie e interessi di partito, comportamenti che si possono riscontrare in ogni momento e in ogni azione politica, ad iniziare dalle linee guida per giungere alle concezioni pragmatiche, ai piani politici, ai modi di attuarli e portarli ad esecuzione.
Per esprimere il concetto che l’etica non rientra nel forma mentis del politico, che è finanche detestata nell’ambiente politico, sembra eloquente la caustica allegoria dello scrittore Alessandro Morandotti: «il politico dell’etica si riempie la bocca ma poi, quando l’addenta realmente, la trova dura da masticare, ostica da inghiottire, pesante da digerire, difficile da assimilare e laboriosa da metabolizzare. Quindi, scoraggiato dalla triste sorte che lo aspetterebbe seguendo l’etica, il politico preferisce ignorarla a priori».
Come se tutto ciò non bastasse, ad aggravare la già penosa situazione dell’attuale «mondo del diavolo», subentra un preoccupante fenomeno che investe personalmente i «diavolini», i quali, non appena acclimatati nell’ambiente politico, si ritrovano tutti affetti da un terribile morbo, il «morbo del potere». Si tratta di un morbo tipico dell’ambiente politico, che esercita una forte attrattiva sui «diavolini» e che determina in essi uno stato di dipendenza, un morbo con proprietà stupefacenti e allucinanti, molto più di una droga, a cui sembra che nessuno intenda rinunciare. La presenza di tale morbo si può constatare in ogni droga party, ossia in ogni riunione politica, caratterizzata da animosità e ostilità, piuttosto che da sani intenti propositivi.
Per arrestare il fenomeno anzidetto nel mondo politico esiste un unico anticorpo, quello di rimuovere tutte indistintamente le parti ammorbanti, ossia l’intero complesso parassitario che da troppo tempo lo infesta. Per uscire da metafora, occorre porre fine alla politica come professione e quindi fare in modo che tutti gli attuali protagonisti della politica si mettano da parte per lasciare spazio libero a nuovi interpreti intenzionati a perseguire il vero bene comune, non gli interessi di partito, e disposti ad affermare un’etica politica, sociale ed economica, fondata su sani principi morali e sulla giustizia sociale.
Occorre che ogni pubblica istituzione sia retta da persone di indiscussa moralità e dal carattere integro che si prefiggano di operare, sulla base di un’etica sociale e politica dettata dalla coscienza, con azioni e provvedimenti capaci di favorire la più elevata consapevolezza, la crescita del senso civico e la libertà dai condizionamenti di tutti. Occorre anche combattere con ogni mezzo tutte le forme di pensiero contrarie alla coscienza morale, oggigiorno sostenute dalle forze arcane dei grandi mass media, così come occorre contrastare le varie forme di cultura materialista. Occorre altresì che ognuno operi con eticità, termine di cui gli appartenenti al «mondo del diavolo» non si affaticano certo per conoscerne il vero significato, per assimilarne l’essenza, e che nei fatti troppo spesso dimostrano di ignorare. Occorre infine promuovere un ampio coinvolgimento e partecipazione alle forme di espressione democratica, sia perché sono momenti di scambio di idee e sentimenti, sia anche perché costituiscono un’occasione per dare il proprio apporto in vista dell’adozione di provvedimenti importanti da parte degli organi istituzionali.
I cittadini sono abituati ad osservare da spettatori inermi lo show della politica-spettacolo, i cui protagonisti perseguono troppo spesso il bene individuale e del partito di appartenenza, piuttosto che il bene comune, in quanto è noto che quest’ultimo non porta voti. Da tale situazione derivano conseguenze di non poco conto. È infatti sotto gli occhi di tutti che il cattivo funzionamento dell’apparato politico e la cattiva gestione della res publica hanno l’effetto di determinare una diffusa indifferenza alla politica, con conseguenti ampie diserzioni dei seggi elettorali, e quindi una vera e propria crisi della democrazia.
Si consideri poi che nel «mondo del diavolo» non mancano le collusioni con la criminalità organizzata e non mancano politici che in qualche misura prendono parte a forme mafiose di gestione del potere, a cui partecipano anche funzionari pubblici, quelli che dovrebbero essere i «fedeli servitori dello Stato». Si consideri altresì che, come afferma lo scrittore Roberto Saviano, le moderne democrazie, e la nostra sembra tra le più rigogliose, «sono caratterizzate da capitali di derivazione mafiosa».
Da quanto sopra, emerge che il «mondo del diavolo» è caduto troppo in basso, talché, per risanare radicalmente la situazione venutasi a creare, occorre una vera catarsi morale e politica, insomma servono urgenti drastici rimedi, tra cui:
- una rilevante riduzione numerica dei politici negli organi istituzioni, centrali e locali, limitandoli ad un terzo rispetto agli attuali;
- limitare a dieci anni la permanenza in carica dei politici, ovvero a non più di due mandati elettorali, e ciò fino al risanamento morale dell’ambiente politico;
- rapportare le indennità di carica ed i compensi dei politici alle retribuzioni medie dei dirigenti pubblici, praticando le debite riduzioni in caso di assenza ingiustificata alle assemblee istituzionali;
- l’adozione del codice di condotta politica suggerito dal Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa ed auspicato dal Ministero dell’Interno, nel testo presentato a Roma il 27 febbraio 2004 nel corso di un convegno organizzato dal Consiglio d’Europa, codice che riveste un alto valore simbolico ed etico;
- eliminare ogni sorta di benefici speciali e di trattamento pensionistico attualmente goduto dai politici (vitalizi, rendite, assegni), in aggiunta alle normali assicurazioni previdenziali ed assistenziali di legge.
Infine, per smantellare l’odierno «mondo del diavolo» in tutte le sue estrinsecazioni e per garantire una futura buona politica, occorre l’apporto e la collaborazione di tutti. In particolare, è necessaria una movimentazione generale che porti alla maturazione di una coscienza critica nei confronti dell’odierno «mondo del diavolo», a cui manca un’etica sociale e politica dettata dalla coscienza.
Dagli attuali modelli del «mondo del diavolo» emerge una sommatoria di protagonismi ed egoismi personali, orientati verso una politica di predazione, modelli che mancano non solo di unità di intenti ma anche di una seria programmazione, incapaci di far fronte alle vere necessità del Paese.
È quindi indispensabile un profondo ricambio generazionale nella classe politica, inserendovi persone illuminate dalla coscienza e dallo spirito di servizio, persone caratterizzate da una visione forte e totalizzante della vita. I nuovi responsabili della politica e del sociale devono possedere qualità morali irreprensibili e devono mirare ad una continua crescita interiore, in assenza o carenza della quale la rinnovata classe politica rischia di fare la fine della precedente.